La chiave di lettura più carismatica del pontificato di Giovanni Paolo II è costituita dalla dimensione missionaria
ad Gentes.Iscritta nel Dna della sua anima, non perdeva occasione per riaffermarla, attraverso la predicazione e la testimonianza, su scala universale. Un impegno ampiamente suffragato dal suo ricco magistero, dai numerosi viaggi nei cinque continenti, dagli incontri con esponenti delle confessioni cristiane e con i leader di altre religioni, dal pressante richiamo alla nuova evangelizzazione. Il Beato Pontefice è stato indubbiamente un uomo di fede, profondamente innamorato di Gesù Cristo, di cui ha parlato al mondo non in modo distaccato, quasi dovesse illustrare un algido compendio fatto di leggi, leggine o dottrine, ma in termini fortemente esperienziali e passionali, trattandosi del 'suo' incontro personale col Risorto, il Dio vivente, di cui egli si era perdutamente innamorato. Si parla spesso dell’esigenza di un rinnovato impegno da parte della Chiesa per rispondere sempre più adeguatamente alle urgenze del mondo globalizzato.Ebbene, Papa Wojtyla ha avuto il merito di affermare a chiare lettere, avendo il Vangelo come esclusivo termine di riferimento per ogni serio ragionamento, che la missione alle genti è la più importante delle istanze planetarie ecclesiali. «Per il singolo credente, come per l’intera Chiesa – scriveva nell’enciclica
Redemptoris Missio – la causa missionaria deve essere la prima perché riguarda il destino eterno degli uomini» (n. 86). Una prospettiva, la sua, che tendeva sempre e comunque a cogliere la congiunzione tra Parola e azione, tra spirito e vita, tra contemplazione e impegno evangelizzante. Ecco perché nei suoi ripetuti interventi, sia in sede internazionale che a livello pastorale, il Beato Wojtyla ha avuto il coraggio di stigmatizzare la cronica virulenza delle carestie che affliggono il Sud del mondo come «politicamente inaccettabili e moralmente oltraggiose». Ad esempio, dopo il crollo del Muro di Berlino (1989), egli rese sempre più profeticamente esplicita la critica al sistema delle società più industrializzate, spiegando con grande lucidità come il materialismo pratico renda i Grandi della Terra corresponsabili della crisi che attanaglia i Paesi in via di sviluppo. Costante l’accento che ha sempre posto nei suoi discorsi sul tema della pace, in riferimento, particolarmente, alle tante «guerre dimenticate» che insanguinano vaste regioni del pianeta, all’utilizzo dei «bambini soldato» e all’assurda proliferazione di armi in Paesi dove si muore d’inedia e pandemie. Non ha mai perso occasione, sia al termine degli Angelus domenicali come anche durante le tradizionali udienze nella Sala Nervi, di enunciare il pensiero della Chiesa in difesa dei diritti umani, del rispetto dello Stato di diritto e sulla necessità della cancellazione del debito estero che grava ancora oggi, come una spada di Damocle, sul destino delle nazioni povere. Di questi messaggi, dalla forte valenza evangelica, si fece interprete nei suoi oltre cento viaggi internazionali in 140 Paesi, proiettati verso le frontiere più estreme e proibitive. Una lunga maratona missionaria che ha avuto nella
Maison des Esclaves dell’isola senegalese di Gorée, il 22 febbraio 1992, forse la tappa più significativa. Su quello scoglio, da cui partivano incatenati milioni di schiavi, a bordo di bastimenti negrieri, per essere deportati oltreoceano, lanciò al mondo un monito accorato e indimenticabile contro ogni forma di oppressione e in difesa della dignità umana. Ma al di là di ogni possibile considerazione sullo spirito missionario del Beato Wojtyla, le parole che meglio riassumono la sua teologia missionaria sono quelle che leggiamo nella
Redemptoris Missio: «La fede si rafforza donandola!» (n. 2). Per dirla col verbo di un suo grande estimatore, padre Piero Gheddo: «Uno slogan che è tutto un programma». L’antidoto a ogni fiacchezza e scoraggiamento.