«Che anche io prenda l’esempio di questo bravo prete!». Sono le parole con le quali papa Francesco aveva concluso lo scorso giugno a Barbiana il suo pellegrinaggio alla tomba di don Lorenzo Milani, non senza rimarcare che la sua visita aveva il significato di rendere soprattutto omaggio alla memoria di un prete «che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato». Un riconoscimento che poco prima lo aveva portato sulla tomba di un altro sacerdote «scomodo, a volte incompreso, perché profetico», don Primo Mazzolari, una traccia luminosa perché per quanto scomoda «parroci come lui, quando sono i volti di un clero non clericale – aveva detto il Papa –, sono la forza della Chiesa in Italia».
Ora il pellegrinaggio papale alla memoria di sacerdoti della nostra Chiesa non clericale prosegue, e la strada che da don Milani porta a don Zeno Saltini e da don Mazzolari a don Tonino Bello è breve. Il 10 maggio, a settant’anni dalla sua costituzione, andrà alla “cittadella del Vangelo” voluta da don Saltini, Nomadelfia (dal greco “la fraternità è legge”, nome che era già un programma), modellata sulle prime comunità cristiane. Un’esperienza già avviata dall’inquieto e tenace sacerdote che nel 1953 ottenne addirittura la laicizzazione “pro gratia” e che solo dopo dieci anni conseguì di nuovo l’esercizio del sacerdozio. Di lui lo stesso Mazzolari disse: «Rimarrà, nonostante certe incompostezze di temperamento e di linguaggio, uno degli uomini che, agli avamposti, hanno servito con fedeltà la causa della Chiesa e dei poveri».
Il 20 aprile Francesco andrà invece nel Salento, a Molfetta e Alessano, per il venticinquesimo anniversario della morte di don Tonino Bello, il prete pastore dalle scelte forti e coraggiose, il vescovo testimone autentico del Vangelo sine glossa e sine modo. Don Tonino Bello, scomparso nel 1993, implorava che il Signore facesse tacere «per qualche anno i teologi e tutti i comizianti» che riempiono la Chiesa soltanto di discorsi. Secondo lui, più che di strategie parolaie e progetti culturali, la missione della Chiesa aveva bisogno proprio del grembiule: «È il grembiule – ripeteva – che ci dobbiamo mettere come Chiesa. Dobbiamo cingerci veramente il grembiule». Nell’immagine suggestiva del vescovo di Molfetta, quello evocato non era il grembiulino dei massoni – come ironizzavano i suoi “spiritosissimi” detrattori, dandosi di gomito – ma l’asciugatoio di cui Cristo si cinge i fianchi, per lavare i piedi dei discepoli prima della sua Passione. Per don Tonino, era quello «l’unico paramento sacro che ci viene ricordato nel Vangelo». Chi vuole disegnare la Chiesa secondo il cuore di Cristo la dovrebbe perciò disegnare con l’asciugatoio ai fianchi. E a chi storceva il naso, davanti a un’immagine di Chiesa troppo «sottomessa al mondo» faceva notare che «la Chiesa del grembiule è la Chiesa che Gesù predilige perché Lui ha fatto così. Diventare servi del mondo, cadere a terra come ha fatto Gesù, che è ruzzolato a terra come un cane che va a raspare e con l’asciugatoio ai fianchi si è messo a lavare i piedi alla gente, i piedi al mondo. Questa è la Chiesa».
Sì, questa è la Chiesa. Che cosa perciò hanno in comune queste quattro figure di preti? «Sono figlio del battesimo, quindi cristiano», diceva semplicemente don Zeno. Sono preti italiani che hanno assunto «lo sguardo e i sentimenti di Gesù», che scopre la sofferenza silenziosa e si commuove davanti alle necessità delle persone, soprattutto quando queste si trovano succubi dell’ingiustizia, della povertà disumana, dell’indifferenza, o dell’azione perversa della corruzione e della violenza. E con i gesti e le parole di Gesù hanno espresso amore ai vicini e ricerca dei lontani senza alcuna riserva. Preti e pastori che però non recitavano da preti né da pastori, e neppure avevano il problema di affermare le proprie idee e la propria immagine, neppure quella dell’eroe maltratto. Hanno anzi accettato anche le umiliazioni e le incomprensione ricevute dalla stessa Chiesa, alla luce di quelle sofferte da Cristo. Dimentichi di loro stessi, hanno lasciato un seme. Secondo quanto papa Francesco augurava nel 2015 al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, perché «Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro».