Per il governo gialloverde arriva il primo voto di sfiducia. Dalla congiuntura: l’economia nel terzo trimestre è in contrazione, non accadeva dal 2014. A questo punto è molto probabile, guardando le nubi all’orizzonte, che l’Italia metterà il piede nel 2019 ulteriormente indebolita dall’avvio di una sciagurata recessione.
È una doccia fredda per i nostri conti e soprattutto per la tenuta sociale. Una doccia fredda che potrebbe – e dovrebbe – trasformarsi in salutare bagno di realtà per l’esecutivo M5s-Lega. Partiti che hanno vinto le elezioni a suon di promesse tanto roboanti quanto remunerative nell’urna, hanno dato vita a un’alleanza mai proposta agli elettori ma diventata possibile e necessaria per l’assenza di una maggioranza omogenea, ma rischiano ora di perdere il controllo del timone del Paese, toccando con mano la distanza che separa la propaganda dai fatti. L’incandescenza del reale, la chiamava Lacan.
Con il primo calo dell’attività economica ( -0,1%) dopo un periodo di espansione protrattosi per quattordici trimestri, il pilastro della manovra 2019, quell’1,5% di crescita fissato nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza e ostinatamente difeso in ogni sede fino allo scontro in quella europea, è destinato a sbriciolarsi. Se già prima poteva essere considerato un miraggio, adesso è una chimera. Il rapporto deficit-Pil è destinato dunque ad aumentare più del previsto, facendo salire ulteriormente il debito. Eppure i segnali del rallentamento erano evidenti già a settembre, quando si è iniziato ad aggiornare il Def. Visibili a casa nostra, ma soprattutto oltre confine, a causa della guerra commerciale a livello globale e della politica monetaria restrittiva della Federal Reserve negli Stati Uniti di Donald Trump. Nonostante ciò, una Manovra finanziaria presentata come espansiva, destina l’80% della maggior spesa pubblica (in deficit) alla spesa corrente e solo il 20% e quella in conto capitale e cioè agli investimenti. Da notare che nel terzo trimestre di quest’anno tutti i principali aggregati della domanda interna registrano una diminuzione, sia i consumi sia gli investimenti fissi lordi. Difficile che una minuscola riduzione delle imposte – destinata alle partite Iva – dia un forte impulso alla crescita. Anche perché viene finanziata con i maggiori oneri fiscali per le grandi imprese, a partire da banche e assicurazioni, senza sconti per quelle che sostengono il nostro export.
Ma è il disegno complessivo – la visione elettorale, se vogliamo – che sottende l’azione di governo a impedire il pur dichiarato intento di garantire e tutelare, "oltre il Pil", termometro comunque fondamentale, la coesione sociale del Paese.
Le due misure cardine della manovra alimentano e non riducono gli squilibri in tal senso. Il Reddito di cittadinanza, oltre a una sperequazione geografica tra Nord e Sud, rischia di confondere interventi sociali e politiche attive del lavoro: meglio sarebbe stata una decontribuzione mirata per le assunzioni affiancata da un potenziamento dell’attuale Reddito d’inclusione per il contrasto alla povertà. La riforma delle pensioni esaspera invece il conflitto generazionale, visto che il conto lo pagheranno i giovani. La flat tax selettiva finirà per premiare solo autonomi e mini-imprenditori – e alimentare l’elusione oltre una certa soglia di reddito – lasciando dipendenti e pensionati alle attuali aliquote Irpef progressive e le famiglie prive di quel quoziente che avrebbe pure iniziato, magari, a temperare il drammatico inverno demografico. E se nei primi tre mesi pieni di vigenza del decreto Dignità, che ha irrigidito il mercato del lavoro, l’occupazione è calata di 40mila unità, gli effetti sul tessuto sociale del decreto Sicurezza e Immigrazione non tarderanno a manifestarsi in tutta la loro forza lacerante: nell’aumento immediato degli immigrati irregolari e nel depotenziamento di quella rete civile di occupazione, formazione e integrazione che si era costituita intorno agli Sprar in dismissione. Senza riaprire per altro il canale dei flussi lavorativi – la Germania sta addirittura pensando di potenziarlo – che per anni ha costretto operai agricoli, colf e badanti in primis a chiedere 'protezione umanitaria' per risultare occupati regolari (e pagare le tasse).
Del resto, sono tutti provvedimenti che, capitalizzando il voto dello scorso marzo, miravano già a rimpolpare il consenso in vista delle prossime elezioni europee. Pescando in bacini differenti, certo, ma messi 'a contratto'. Misure elettorali di breve respiro e non riforme strutturali di ampia portata in grado di scuotere un Paese che da diversi punti di vista sembra bloccato e quasi rattrappito, sempre più chiuso e diffidente. Un Paese che ha problemi a crescere, contratto e impaurito quanto il Pil del terzo trimestre. Ma per tornare a crescere l’Italia non può che aprirsi, includere, generare.