C’è un filo sottile che non è mai scomparso dalla cultura politica italiana e che a volte torna a farsi spessa linea guida di partiti e movimenti. Si tratta dell’idea di "estraneità" a un Paese della cui parte migliore ci si sente i rappresentanti più adatti e gli interpreti più veri. Oggi, di fronte al Movimento 5 Stelle, questa idea, spesso immaginaria, sembra riemergere e tornare d’attualità con la furia "distruttrice" di una formazione che disprezza molte espressioni di una nazione «in macerie» e punta a conquistare le leve del comando per «cambiare il mondo».Nella lunga genealogia si potrebbero addirittura scomodare il Partito d’Azione dell’immediato dopoguerra e le sue innervazioni nei partiti della Prima Repubblica. «Coscienza critica di un Paese estraneo», si disse di Norberto Bobbio alla sua scomparsa. Ma si può restare anche nella (nobile) canzone d’autore, per ricordare che il disco postumo di Giorgio Gaber fu intitolato senza scandalo «Io non mi sento italiano». Superfluo dire che qualunque accostamento tra Beppe Grillo e il «mite giacobino» Alessandro Galante Garrone sarebbe giustamente da bollare come assurdo; ma i tempi, gli uomini e gli stili sono molto cambiati. Una volta l’obiettivo critico era il corpaccione del Belpaese, ritenuto incapace di sollevarsi al di sopra dei propri vizi atavici: dalla mancanza di senso civico alla furbizia particolaristica e al conservatorismo qualunquista.I proponenti erano in minoranza, come non può non essere chi si ritiene al di sopra dell’italiano medio, della sua condotta e anche dei suoi gusti. Era un’élite intellettuale che faticava a capire i propri concittadini e ne era ricambiata nell’incomprensione. Sentimento di superiorità e volontà di radicale cambiamento che si sono trasfusi in quella parte della sinistra che non era di massa e popolare. E che ha avuto un’ulteriore evoluzione nell’era di Mani Pulite, con la foga giustizialista. In un’Italia perennemente corrotta e refrattaria alla legalità poteva essere la ristretta classe della magistratura a portare un rinnovamento profondo dei vizi nazionali.Inutile dire che si tratta di una vicenda costellata di intellettuali e politici – galantuomini e sconfitti – che forse troppo pretendevano dai loro connazionali. Diversissimi, è ovvio, sono un ex comico e un esperto dei nuovi media (Gianroberto Casaleggio) insieme al ristretto gruppo di eletti che ora entra in Parlamento. Molto più vasta, almeno a queste elezioni, la loro base elettorale, ma i consensi che hanno ricevuto sono il frutto più dello scontento e della protesta che dei meriti già acquisiti dai cinquestelle. Eppure, ciò che colpisce è il rifiuto, da parte del nucleo chiuso e compatto – e anche ruvidamente giacobino – della nuova formazione, di molto di ciò che questo Paese oggi è, nel bene e nel male. Tutta la politica, i partiti e il galateo istituzionale vanno azzerati senza salvare nulla, malgrado una storia magari macchiata ma che ci ha portato a essere una solida democrazia liberale? Tutto il giornalismo merita disprezzo generalizzato tanto da concedere udienza soltanto a riviste e tv straniere? L’intera classe dirigente in senso lato va dismessa a favore degli inesperti, unicamente per il fatto che questi ultimi non risultano compromessi con qualsiasi scelta compiuta recentemente? È necessario rigettare l’attuale modello di sviluppo e tagliare tutti i ponti con il passato, all’insegna del provvisorio tanto peggio tanto meglio? Probabilmente, gli elettori di Grillo non condividono questa prospettiva, ma vorrebbero solo un cambiamento effettivo e non di facciata della cosa pubblica. È plausibile che l’efficace strategia iniziale del Movimento lasci il posto a un approccio più moderato. Dal disprezzo del proprio Paese, dalla sopravvalutazione della propria purezza l’esperienza pare dirci che non può nascere nulla di buono.Questo però non significa che abbiano ragione gli "accomodanti" e i "transigenti", che a parole amano tanto la propria nazione da perdonarle tutto, anche l’egoismo, la sciatteria, la pigrizia e il malaffare. Tra i due eccessi, continua a piacerci un’Italia "normalmente" un po’ più seria e rigorosa. Quella che tanti cattolici e laici non hanno mai smesso di costruire, anche in mezzo alle «macerie», letterali e metaforiche.