Caro direttore,
scrivo “a caldo”, dopo aver ascoltato questa mattina (sabato 21 marzo, ndr) le parole quasi gridate dal Santo Padre a Scampia. Scrivo in particolare per una testimonianza diretta su uno degli argomenti toccati con forza da papa Francesco: emigrazione, accoglienza e solidarietà. In verità, ogni volta che ho sentito blaterare qualcuno sulla difesa delle nostre frontiere «ricacciando in mare gli indesiderati», avrei voluto scriverti perché preso da un senso di ribellione e vergogna insieme: ribellione contro una richiesta assolutamente indegna di un popolo civile; vergogna perché sono stato un emigrato anch’io e non ho dimenticato cosa voglia dire “stato di necessità” né quanto bene sono stato accolto in terra straniera. Per pudore e profondo rispetto per gli italiani, che penso quasi tutti d’accordo con papa Francesco, non ti ho scritto prima perché convinto che i nostri concittadini non hanno legami con certi capatáz che predicano solo il male; ho quindi ritenuto che non valesse la pena promuoverne le idee anche solo per denunciarle. Va però sottolineato che si tratta di persone che trovano spazi sempre più consistenti nei media, servizio pubblico compreso. Proprio per questo va ricordato che noi, dall’immediato dopoguerra agli anni 50, abbiamo subito le conseguenze devastanti della guerra. I suoi derivati: stato di indigenza ed esodo a carattere biblico. Sono state poche le famiglie del Nord, del Centro e del Sud Italia a non esserne state toccate. Valga un esempio per tutti: gli emigranti del Veneto non furono meno degli emigranti della Calabria. I Piemontesi, in Argentina, hanno fondato diverse città. Una di queste si chiama “Piamonte”, si trova in Provincia di Santa Fé e ha per dialetto il piemontese. In definitiva, nel resto del mondo gli Emigranti sono stati considerati come una “risorsa” e non una “piaga” da combattere. Anche in tempi di crisi. Forse è questa la strada da seguire. Vogliamo chiederci, cosa sarebbe accaduto se il resto del mondo ci avesse accolto come pochi capipopolo nostrani suggeriscono? Certo, l’accoglienza degli emigranti, qualsiasi fosse la loro nazionalità, non è stata uguale dappertutto. La mia esperienza? A 16 anni (tra qualche mese ne avrò 80) sono capitato nel Paese che considero il più ospitale del mondo: l’Argentina, patria di papa Francesco. Vi sono rimasto 12 anni. Laggiù, «quasi alla fine del mondo», sono diventato giornalista professionista e ho potuto viaggiare molto per servizi – tra gli altri – anche sull’emigrazione. In nessun Paese ho potuto riscontrare richieste e comportamenti ostentatamente ostili tipo quelli che qualcuno pretende oggi qui a casa nostra. Credo che questo sia quanto di peggio possa capitare a un Paese i cui emigranti negli ultimi decenni sono stati (e sono) quasi ovunque bene accolti. Grazie e buon lavoro.
Lucio Zampino
Su questa terra «siamo tutti migranti» e «nessuno di noi», ricco o povero che sia, in essa può vantare «dimora fissa». È davvero così. E noi italiani – come tu, caro Zampino, dici con la consapevolezza e la passione di chi ha vissuto l’emigrazione – dovremmo saperlo molto bene, per millenaria cultura e per lunga e diretta esperienza. Apparteniamo a una storia e la continuiamo, portiamo un’identità, generiamo una discendenza e relazioni forti e siamo chiamati a condividere un mondo che è casa comune, affidataci in custodia da un Padre che ha dato a ognuno e a tutti la stessa identica dignità e lo stesso identico diritto e dovere, un Padre che – noi cristiani lo sappiamo bene – «dobbiamo andare a trovare, uno prima, l’altro dopo...». Il Papa argentino, il Vescovo di Roma figlio di emigranti italiani restituito già anziano alla terra dei suoi antenati per servire la Chiesa universale, ce lo ha ricordato ieri da Napoli con semplice e straordinaria efficacia, con la libertà e la carità di chi non si concentra sulle pensate di politici o politicanti, ma sulla vita delle persone. Francesco lo ha fatto attraverso un ragionamento a braccio – a partire dalla questione che gli aveva proposto una signora filippina – sull’ingiustizia di volere e, peggio ancora, vivere una società nella quale le persone straniere venute a stare e a lavorare con noi – o che a noi, nella difficoltà e nella persecuzione, hanno chiesto aiuto – siano a stento riconosciuti come «figli di Dio» al pari nostro e, comunque, vengano (in)civilmente trattati da «cittadini di seconda classe». Io nonostante tutto, nonostante cioè slogan corrosivi, nonostante paure comprensibili e incomprensibili generalizzazioni contro il “diverso”, la penso come te, caro e saggio amico: tanti, tantissimi italiani non hanno affatto perso la memoria e hanno testa e cuore per vivere con umanità l’immigrazione così come i nostri padri (e, oggi, di nuovo non pochi nostri figli) l’emigrazione. Governare secondo giustizia e umanità questa condizione umana e, prima ancora, pensare gli altri (e, dunque, noi stessi) come la “ricchezza” che sono è la strada. Togliamo ascolto e potere a chi pensa, parla e fa male.