Caro Avvenire,
mi ricollego alla lettera, pubblicata il 31 gennaio, dell’amica Carmela di Potenza, che ha acceso un faro sui quarantenni precari. Fra gli attuali programmi politici, nessuno si occupa di questo esercito di precari quarantenni, figli della Riforma Biagi. La classe post 1973 che, dopo la agognata laurea, si affacciò al mondo del lavoro si ritrovò e si ritrova tuttora nel tunnel delle Collaborazioni a progetto e dei Co Co Co. Gli stessi che, diventati genitori, dopo la nascita del primo figlio si sono trovati nella cassetta della posta gli auguri dell’allora presidente del Consiglio, che regalò mille euro al bebè, un bonus che tuttora i Governi che si susseguono inseriscono nei loro programmi per incrementare le nascite, come se fosse sufficiente. Ma chi si è occupato di sostenere la crescita di quegli stessi bebè che oggi hanno oltre 10 anni e hanno i genitori rimasti precari?
Ciononostante questo esercito di genitori, lavoratori precari, fa salti mortali fra spese del dentista, oculista, sport e libri – non più gratuiti dopo la scuola elementare – e magari anche per garantire ai figli una meritata gita o una vacanza. Altro che bonus bebè, ma nessuno di questi programmi politici ha pensato ad un “Superbonus Teen”? Nessuno di questi programmi politici ha inserito fra i suoi obiettivi la stabilizzazione degli ultradecennali precari? Questo esercito ha perfino riposto le speranze nelle domande di terza fascia del personale scolastico docenti e Ata. Almeno la metà dei 4 milioni di domande presentate nel 2017, in realtà, “siamo noi”. Aggrappati alla speranza di ottenere un precariato più stabile, un contratto di lavoro subordinato, seppur rimanendo precari, concorrendo con il solo titolo del diploma di maturità e aggiungendo qualche punto per laurea e titoli informatici o linguistici. Annullando tutto il bagaglio accumulato in tanti anni di lavoro precario perché i requisiti previsti dalle domande, come titoli di sevizio, richiedono contratti di lavoro subordinato e direttamente con le Pubbliche Amministrazioni.
L’articolo 1 della Costituzione afferma: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». E noi aggiungiamo: possibilmente non precario!
Anna Buonanno, classe 1975 - Napoli
I “bonus bebè” sono qualcosa che mi ha sempre lasciato perplessa. Quando ho avuto io i figli non si usava, era ancora il tempo in cui in Italia nessuno osava incoraggiare la natalità, e mettere al mondo tre bambini pareva già un attentato all’equilibrio del Pianeta. Poi è venuto in voga il “bonus”, a intermittenza nei fatti o anche solo nelle intenzioni. Segno di incoraggiamento, quasi una pacca sulle spalle. Dubito però che quell’assegno abbia mai incoraggiato davvero qualcuno ad avere un bambino. Un figlio occorre mantenerlo per vent’anni, e spesso molto oltre. Che significa, mi chiedevo, una “una tantum”, quando un figlio è per sempre, e costa di più ogni anno che cresce? Come se chi fa politica non lo sapesse; come se tutti non sapessero quale bene e quale onere di lungo corso è un figlio, e tanto più per la generazione della signora Buonanno, uomini e donne che oggi hanno 40 anni e ancora spesso sono precari (e non per colpa della Legge Biagi, ma qui, oggi, non posso e non voglio entrare in un discorso da esperti). Coppie che non hanno osato dare al primogenito un fratello, nell’affanno di mutui e bollette da pagare: costi sempre fissi, e entrate sempre aleatorie. La flessione della natalità in Italia – nel 2017 i nati sono stati 464mila, il 2% in meno rispetto all’anno prima – è anche la somma di migliaia di storie come quelle raccontate dalla lettrice. E servizi come gli asili nido che non ci sono abbastanza, e di un fisco che non aiuta strutturalmente le famiglie, e insomma, attorno, dallo Stato nessun vero appoggio, o anche solo nessuno degli assurdi svantaggi che si sono moltiplicati negli ultimi decenni, a chi vuole essere madre o padre. E men che meno a chi lo è già, ha già avuto magari il suo “bonus”, e intanto i figli si fanno adolescenti, e chiedono sempre di più.
Ho dato – il nostro giornale ha spinto tutti a mettere le carte in tavola – un’occhiata ai programmi dei partiti per le prossime elezioni, relativamente al welfare familiare. I tempi sono cambiati, e ora molti, a destra e a sinistra, si affannano a promettere aiuti, senza più l’antico imbarazzo di essere assimilati alle campagne per la natalità del Ventennio. C’è chi annuncia «il più imponente piano di sostegno alla famiglia e alla natalità della storia d’Italia». Chi assicura «la triplicazione delle risorse per famiglia e demografia». Oppure, «17 miliardi per le famiglie con figli». O ancora «una rivoluzione copernicana» del welfare pro famiglia. Alleggerimento del carico fiscale, quoziente familiare, più servizi alla prima infanzia, “smart work”, cioè lavoro flessibile per le neomadri. Leggo di Iva azzerata per i prodotti sull’infanzia, di asili nido aziendali e condominiali a orario elastico, di asili nido gratuiti. Leggo addirittura di un bonus di 400 euro al mese per ogni figlio, fino ai sei anni, per chi non supera gli 80mila euro di reddito annui. Insomma, mirabilia e oltre, promesse a manciate.
Fossero veri solo per la metà, questi annunci. Perché i fuochi d’artificio sono effimeri, mentre un figlio, appunto, cresce in vent’anni e oltre. E allora servirebbero misure e riforme di lungo periodo, che diano sicurezza a chi si accinge al più grande degli investimenti umani (e sociali). E un clima, nelle aziende e fuori, più solidale e riconoscente con chi si butta nell’avventura di diventare genitore. Lavoratore precario magari, ma padre o madre per sempre. Perché quel 2% in meno di nascite nel 2017 sembra poco, ma sono 9.280 culle in meno, vite in meno, storie in meno: un mondo che manca, per paura di non farcela. A conferma che la logica dell’“una tantum” non basta. Che gli aspiranti genitori domandano, più che dei bonus, di essere accompagnati.