Netanyahu oltre la linea rossa in Libano
sabato 12 ottobre 2024

Il secondo attacco alla missione Onu in Libano, seguito al primo più grave di giovedì, ha suscitato le proteste formali della gran parte dei Paesi europei e del Canada, nonché un ulteriore monito da parte degli Stati Uniti. Ma la reazione di Israele non è stata diversa da quella mostrata dopo tanti atti di guerra in cui è accusato di violazioni del diritto umanitario internazionale: un’indagine interna per chiarire i contorni della vicenda. Né scuse, né tentativi di rimediare allo strappo che in casi del genere si crea. Risuonano ancora, anzi, le intimazioni alle truppe della missione Unifil di spostarsi a Nord, per lasciare campo libero all’avanzata nel Sud del Paese. Le mosse diplomatiche e le dichiarazioni, anche le più indignate, nel pieno di una guerra guerreggiata, non smuovono né commuovono. Ovviamente. Ma quello che stupisce in questo caso è l’assoluta certezza che guida, il suo governo e lo Stato maggiore circa l’incapacità dell’Occidente di fare seguire fatti alle parole. Gli alleati di Israele vedono crescere l’incendio in Medio Oriente ma non sanno come intervenire né vogliono pagare un prezzo nel tentativo di fermare le ostilità. L’impressione è che Tel Aviv avesse da tempo nel mirino molti obiettivi in Libano e su altri fronti che ha aperto in questi mesi. Si asteneva dal colpire, non per timore di rappresaglie dei nemici, che oggi quasi cerca nel caso dell’Iran, bensì per la necessità di preservare il sostegno ampio (e necessario) che riceve in una situazione nella quale la sua esistenza rimane minacciata.

Quando ha compreso, nell’escalation che è seguita all’orribile pogrom del 7 ottobre 2023, che si era creata una congiuntura favorevole – le elezioni americane e Biden di fatto fuori gioco a partire dalla sua rinuncia alla candidatura; la guerra in Ucraina che occupa un’Europa di per sé ben poco interventista; un mondo arabo musulmano diviso e non troppo dispiaciuto nella sua potente espressione sunnita di un colpo all’espansionismo sciita – ha accelerato e dato fuoco a tutte le polveri. Le Nazioni Unite erano già state svillaneggiate e nemmeno ritenute un interlocutore rilevante. Il bombardamento diretto dei Caschi blu ha superato però un’altra soglia, come ha già sottolineato ieri su queste colonne Riccardo Redaelli.

Non è la prima volta che i peacekeepers finiscono nel mirino in qualche parte del mondo. Mai però una democrazia aveva sparato a soldati dei Paesi a lei più vicini, Italia compresa. Non c’è una strategia in questo. Solo la volontà di fare terra bruciata di tutti i nemici veri o presunti dello Stato ebraico, in una congiunzione vista come irripetibile, anche per la superiorità tecnologica e militare schiacciante dimostrata. Alcuni nemici sono certo autentici. Il terrorismo di Hamas, Hezbollah e Houthi non è un’invenzione di Netanyahu. La popolazione civile, le donne e i bambini che muoiono ogni giorno a Gaza e a Beirut non sono però combattenti in armi contro Israele, piuttosto vittime due volte di un conflitto sempre più brutale. La perdita di ogni proporzionalità nelle azioni per uccidere capi dei miliziani sta provocando una strage che avrebbe meritato una più incisiva opera di contenimento politico da parte degli amici di Tel Aviv, ben prima di qualche cannonata sulle postazioni di Unifil. Che equilibrio e che sicurezza potrà nascere per lo Stato ebraico (e anche per gli ebrei della diaspora) se si semina morte e distruzione senza criterio e limite? I 42mila uccisi nella Striscia sono circa il 2% degli abitanti, quasi 1,2 milioni di vittime se parametrati sulla popolazione italiana. La presenza delle Nazioni Unite si è dimostrata debole, per regole di ingaggio e modalità di azione. Non hanno fermato il Partito di Dio libanese, non si può chiedere di fermare l’avanzata dei carri armati con la stella di David.

Serve ora uno sforzo congiunto animato da determinazione e saggezza che non rimetta Israele alla mercé delle minacce di chi lo circonda e tuttavia ponga una pressione inequivocabile perché si avvii una drastica riduzione degli attacchi su obiettivi non legittimi, la situazione umanitaria sia alleviata e si ragioni di realistici piani di convivenza tra popoli. Se si ventila a Netanyahu di usare la leva delle forniture di armamenti (da parte degli Usa) o di qualche tipo di sanzioni (da parte Ue), si rischia di porre in pericolo Israele, di fare il gioco di chi ne vuole il male? Non dovrebbe mai essere questo nemmeno un effetto collaterale. Guai a noi. Si tratta invece di fare fronte comune per avvicinare una pace di cui Israele ha bisogno. Perché le minacce esterne non finiranno con l’offensiva di questi mesi. Altri odii sono stati seminati, altri arsenali si riempiranno. E la vittoria potrebbe rivelarsi di corto respiro. Stare dalla parte di Israele nel modo giusto è lavorare per la pace e la sua sicurezza (anche con più vigilanza preventiva verso chi lo insidia), e indurlo a comprendere che l’autodifesa può e deve rimanere dentro certe regole. Regole che l’Europa dal 1945 ha contribuito a forgiare e vuole continuare a tutelare per evitare lo spargimento di ulteriore sangue e salvare la propria anima.

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