Caro direttore,
«Bisogna ripartire»: è ciò che si sente dire negli ambienti di Palazzo Chigi rispetto alla Libia. Un «groviglio di problemi» che va assolutamente dipanato. Gli eventi di Tripoli di questi giorni aumentano l’urgenza di una calibrata iniziativa prima che sia troppo tardi. Almeno, occorre provarci. Da troppo tempo la crisi libica è lasciata politicamente a se stessa, salvo qualche ricostruzione (spesso semplicistica) sulle diatribe italo-francesi. Per gli europei andare in ordine sparso si è rivelato esiziale, fin dalla guerra del 2011. In realtà, blandendo i rispettivi 'amici', gli europei – in particolare francesi e italiani – hanno commesso il medesimo errore: credere che si possa far pendere a proprio favore l’instabile equilibrio tra fazioni emerso dopo la nascita degli schieramenti del 2014 ('Alba per la Libia' e 'Dignità'). Solo con il negoziato di Skirat (Marocco) si era realmente tentato di passare alla necessaria fase successiva: quella dell’accordo politico nazionale. Ricordiamo che la parte che de facto produsse l’accordo (Tobruk e Bengasi) poi non lo firmò, mentre le milizie di Tripoli e Misurata che lo contestavano alla fine lo accettarono. Un incrocio tipico in mediazioni di questo genere. Occorreva, dunque, proseguire gli sforzi negoziali. Ma da Skirat in poi nessuno si è più realmente cimentato con la politica... Oggi i commenti sono molto incentrati sul contenzioso franco-italiano, immaginando 'complotti' vari secondo lo spirito dei tempi. Si tratta di un riflesso sbagliato. Ciò che accade è invece, a mio giudizio, la conseguenza di un approccio miope alla crisi libica, che accomuna Roma e Parigi. Mostra la corda l’aver affrontato la Libia solo in chiave nazionale: crisi migratoria, lotta per l’influenza, avidità di petrolio o altro. Non si è fatta più politica estera, ma si è corso dietro a presunti interessi nazionali, non verificati e certamente parziali.
La frammentazione di potere tra vari Ministeri e Agenzie di governo accomuna Francia e Italia in tale contesto sbagliato. Giocare con le fazioni e tribù libiche credendo di ottenerne vantaggi è un’illusione: i vari capi libici sono maestri nel metter uno contro l’altro. La loro guerra è predatoria come avviene in altre parti d’Africa e Medio Oriente. Si tratta di 'signori della guerra' che non si fissano mai in schieramenti definitivi, come accade nel Sahel. Tutto si interseca e sovrappone in Libia: salafiti e Fratelli musulmani, terroristi e trafficanti, sfruttamento delle risorse e dei civili, interessi di Paesi vicini e lontani... Il motivo principale di tutto ciò è che in Libia non esistono Stato né istituzioni nazionali, a parte la Lia (Lybian Investment Authority) che ancora distribuisce i salari a tutti, sulla base dei proventi del petrolio. Ma l’economia libica non si regge più su tale asset e si è trasformata in un’economia informale in cui tutti i traffici sono leciti (anche la schiavitù), così come lo è ogni cambio di casacca. Tutto è precario in Libia e tale precarietà serve gli interessi momentanei di capi tribù o capi milizia.
È un pericolo strategico che mette a rischio la stabilità di tutto il Mediterraneo centrale. Italia e Francia dovrebbero accordarsi sulla ricostruzione dello Stato libico, mediante autorevoli negoziati. Dopo che Macron ha tenuto una conferenza a Parigi nel maggio scorso, a cui hanno partecipato solo alcuni soggetti anche se importanti, ora il Governo italiano ne sta organizzandone una più allargata in Sicilia. Se non è troppo tardi, tale decisione può rappresentare la sospirata svolta. Ma occorre lavorarci bene e assieme, coinvolgendo tutti coloro che – a diverso titolo – hanno un interesse in Libia e possono concorrere alla soluzione. Sono molti, ma va chiarito da subito che ogni competitività italo-francese sanzionerebbe il fallimento di questo prezioso tentativo.
Nessuno in Libia da solo è in grado di fermare la guerra: né gli attori interni né quelli esterni. E se non si ferma insieme, questa guerra travolgerà tutti e diverrà un cancro tale da provocare brutte sorprese, metastasi laddove oggi ancora non si vede il male. Insisto: occorre andare al di là di ogni complottismo fuorviante e futile competitività per tornare alla politica.
Già viceministro degli Affari Esteri