Quel che addolora di più (non dico: attira l’attenzione, ma addolora) nella lugubre notizia che viene dal Catanese, sul barelliere accusato di aver fatto morire in ambulanza i malati terminali che riportava a casa, è il guadagno. Una miseria: 200-300 euro lordi, da dividere col clan di coloro che l’avevano scelto per l’impresa. Quanti gliene sarebbero restati? Forse metà della metà. Tenendo conto, se le cose stanno davvero come nel capo d’accusa, che questa somma la guadagnava per aver letteralmente ucciso il malato, il quale comunque era destinato a morire ugualmente presto, e che dunque i parenti del defunto gli avrebbero dato comunque una cinquantina di euro, il guadagno diciamo così maggiorato per l’omicidio oscilla tra i 50 e i 100 euro. «Che schifo – dicono adesso i suoi compagni barellieri –, e tu spegni una persona per questa manciatina di euro?».
Vedremo se le cose stanno davvero così. Ma se stessero così, questa sarebbe la notizia: la svalutazione della vita. Non è che la notizia, che arriva ogni tanto, di qualche potente industria farmaceutica, che inventa una nuova medicina portentosa contro una malattia mortale e la mette in vendita a un prezzo esorbitante, tagliando fuori dall’acquisto i malati più poveri, perché le Sanità pubblica ci metterà anni a prepararsi per distribuirla gratis, non è, dicevo, che questa azienda inventrice faccia qualcosa di nobile. Però qui scatta un maligno principio di Marx, del quale non teniamo mai conto: la quantità, quando è tanta, diventa qualità.
E dunque il farmaco salvavita che costa centinaia di migliaia di euro ci pare situato in una realtà metafisica. Ci soggioga. Ci blocca il cervello. Sta al di sopra di noi. Al di sopra dell’umano. Non ci scandalizza, ci ammutolisce. Ma che si uccida per 50 o 80 euro, questo è al di sotto dell’umano, questo ci umilia, questo ci scandalizza.
Proviamo a frattalizzare l’atto presunto dell’omicidio, l’atto che in termini borghesi si chiama “affare”: il barelliere sale in ambulanza col malato terminale, lo accompagna a casa, a morire tra i parenti perché non c’è più niente da fare. I parenti sanno tutto. Son pronti a prestare tutte le cure, affinché il parente viva gli ultimi giorni tra attenzioni, premure, affetto, servizi, insomma immerso in quel sentimento che abbiamo pudore a nominare e che è l’amore. Se il parente terminale muore con tanto anticipo su quella che si sperava fosse la fine naturale della sua esistenza, i famigliari vogliono fornirgli, concentrato in quei pochi giorni che gli restano, tutto l’amore che avrebbe goduto se fosse vissuto a lungo. Son dunque ansiosi e solleciti quando ricevono in casa il malato terminale. Pronti a lavorare al massimo per lui.
Ma il barelliere omicida, strada facendo, gli inietta in vena una siringa di aria, in modo da provocargli un’embolia gassosa, fulmineamente mortale. Quel che consegna è dunque un morto. I famigliari son trafelati e paralizzati, non sanno cosa fare. E ci sono mille cose da fare, quando c’è un morto. E allora le fa lui, il barelliere. Veste il morto, lo prepara, chiama l’agenzia funebre, naturalmente preconcordata col clan. Da tutte queste operazioni gli viene nuovo denaro: dai parenti che gli sono grati per essere sostituiti, ai compagni di cosca, che lavorano alle esequie, al boss, capo di tutto, che tutti ricompensa. Immagino (scusate, per capire quant’è nefanda questa operazione, devo aiutarmi con l’immaginazione) che il barelliere, strada facendo, quando ha fatto l’iniezione fatale, spii il malato per i pochi secondi in cui ancora vive, e pensi: “Ha avuto un singulto, son 20 euro; altro singulto, altri 20 euro... ”.
Conta il profitto. Io non credo che un uomo, qualsiasi uomo, anche il più cattivo, sia indifferente alla morte di un altro uomo. Ma credo che in casi come questo agisca una morale collettiva: l’uomo è in un clan, fa quel che fa il clan. Agisce in gruppo. La coscienza di gruppo sostituisce la sua coscienza. È il gruppo, che bisogna smantellare. E infatti quelli che sapevano han parlato solo quando gli autori e organizzatori erano ormai in carcere. È la morale che va rifondata. È a questo che serve il Natale.