Caro direttore,
il 22 dicembre del 1950 il mio fratellino di 5 anni, che con me e altri stava nella cunetta – dico la cunetta – della via Aurelia raccogliendo il muschio per il presepe, venne ucciso da un’auto fuori controllo il cui conducente litigava con la moglie. Nel processo che seguì i miei genitori, per disoneste e silenziose trame, rischiarono l’imputazione del reato di “incustodia di minore” se non avessero ritirato la costituzione di parte civile. Mia madre, per questa nostra tragedia, rimase a letto, quasi in coma, per oltre un mese portando, nella vita successiva, le stimmate di questo immedicabile dolore. Ora, le cronache odierne sono zeppe di notizie ferali legate alle morti di minorenni in conseguenza del consumo di droga. E di ogni evento l’aspetto a cui si dà forte ed emotivo risalto massmediatico è l’identificazione degli spacciatori col contorno biasimevole delle dichiarazioni dei familiari delle giovani vittime che, a corpo ancora palpitante e caldo del figlio, senza apparentemente manifestare emozioni, fanno le loro dichiarazioni in tv o ai giornali come se quella morte sia cosa di altri. Potenza della visibilità tv, che banalizza e pietrifica il dolore trasformandolo in spettacolo! Mai che nessuno, invece, appunti il discorso sulla responsabilità genitoriale e su quel reato di cui furono minacciati i miei genitori. Anzi, se qualcuno, come il sindaco di Gallipoli, vi porta l’accento, è fatto segno a critiche e vilipendio perché viene considerata corrente e corretta dottrina che responsabile è sempre e comunque la società. Le chiedo, allora: c’è qualcosa che non va in questi meccanismi?
Luciano Pranzetti
Sa bene, caro professor Pranzetti, che noi di “Avvenire” contestiamo costantemente e vivacemente le degenerazioni dell’informazione–spettacolo che mortifica l’anima delle persone e ne eccita i protagonismi. Non esiste libertà e non esiste amore senza responsabilità. E non esiste dolore che possa essere versato con leggerezza nello smisurato imbuto del sistema mediatico. (mt)