Il lancio di missili Patriot per intercettare gli attacchi iracheni su Israele - .
Atterrai a Tel Aviv una mattina del gennaio 1991. Desert Storm, ultima fase della guerra del Golfo, Usa e un’ampia coalizione di Stati contro l’Iraq invasore del Kuwait, era da poco iniziata. Appena scesa dall’aereo un soldato mi mise in mano una scatola non grossa, ma molto pesante. «Your mask, miss», disse. Era la maschera antigas, che ciascuno in Israele doveva avere con sé, dopo le minacce di Saddam. Quel ritrovarmi con una maschera antigas in mano mi è indimenticabile. Avevo voluto io partire, come inviata di Avvenire. Da bambina sentivo raccontare dei bombardamenti su Milano, immaginavo le fughe giù per le scale, le cantine buie, lo schianto delle bombe. Ma ero estremamente curiosa: volevo vederla la guerra, con i miei occhi.
Ero già stata in Israele, nel 1986, in un momento di relativa pace. Con un’amica avevamo girato il Paese, dormendo nei kibbutz. Avevo visto una terra meravigliosa e il suo cuore, Gerusalemme: e il cuore del cuore, il Sepolcro. Ne ero rimasta sedotta. Un posto unico al mondo. Ma nel 1991 l’aria a Tel Aviv era molto cambiata. Per quanto gli Scud iracheni non avessero fatto stragi e i Patriot israeliani quasi sempre li intercettassero, c’erano stati dei morti. Soprattutto il fantasma del gas opprimeva: tutti con quella scatola a tracolla, e nei vecchi, spesso scampati a persecuzioni e poi immigrati, un’amarezza negli occhi: il gas, ancora. Ai corrispondenti occidentali a Tel Aviv era fortemente consigliato di soggiornare all’Hilton, perché lì ogni giorno c’era il briefing dell’Esercito, e andarci durante un allarme sarebbe stato impossibile. Quindi mi ci stabilii un po’ imbarazzata da un albergo così lussuoso, dai commessi in livrea che inesorabilmente mi riportavano la maschera che cercavo di perdere ovunque.
Non avevo paura. Come spesso accade quando si è giovani, ritenevo impossibile morire. La morte non poteva riguardarmi. È una sorta di incantesimo diffuso a vent’anni, o anche trenta, e pericoloso, ma in quel frangente mi fu utile. L’Hilton era affollato, oltre che da giornalisti, da ricchi ebrei tornati da lontano per essere vicini alla famiglia, da colonnelli, portavoce, belle donne, bella gente che si sentiva più sicura lì a casa. Lì almeno si era in tanti, all’ora dell’aperitivo, e in quella miscellanea internazionale il clima era tuttavia quasi gaio. Il calice in mano, si chiacchierava, si sorrideva alle signore, e la guerra pareva lontana. Ma, tutti, con la scatola a tracolla. E già la mia prima sera all’Hilton l’allarme aereo, acuto, interruppe quel singolare happy hour. Gli Scud arrivavano su Tel Aviv, ma il pensiero correva al gas.
Fu questione di un attimo: tutti si alzarono di scatto, mollando malamente i calici, e affannosamente indossarono la maschera, intanto che si precipitavano in massa verso gli ascensori. La galanteria con le signore, dimenticata: venivano superate a spintoni, goffe sui loro tacchi alti, oppure se li toglievano, e allora scappavano come gazzelle. I vecchi patriarchi tornati dagli Usa, traballanti sui loro bastoni, rimanevano indietro. D’altronde prendere gli ascensori era impossibile, tanto gremiti erano che le porte non si chiudevano. Troppo meravigliata da questa scena, me ne stavo a osservare senza indossare la maschera. Me la misi infine, mi guardai in uno specchio dorato: sembravo una mosca, con quel naso di gomma nero. Tutti, attorno a me, parevano mosche, quella sera all’Hilton. Una metamorfosi collettiva. Uno sciame di insetti nel panico. Eccola, la guerra: almeno un piccolissimo pezzo di guerra, davanti a me.
La sealing room, il salone blindato contro i gas, era al decimo piano - scelta che mi pareva discutibile, con gli Scud in giro. Con scarsa convinzione dunque salii le scale fino al rifugio. Qui, la folla di mosche era tornata abbastanza tranquilla. Si sentivano echi di esplosioni, ma lontani. La direzione dell’Hotel aveva provveduto a disporre in vasi di cristallo grandi fasci di rose rosse, e offriva Veuve Clicquot agli ospiti, per alleggerire l’atmosfera. Ne bevvi anche io, e in effetti mi sentii più ottimista. Ma soffocavo, con quel naso di gomma, e mi sfilai insofferente la maschera. Seduto accanto, un anziano signore con i capelli bianchi mi vide, si sfilò anche lui la maschera e mi sorrise. Un ebreo americano, tornato da New York per stare vicino a figli e nipoti. Il massiccio Rolex d’oro al polso diceva chiaramente del suo status sociale.
Ma l’uomo, forse un banchiere, forse un imprenditore, quella sera nella sealing room, con l’angoscia addosso, aveva voglia di parlare. E oltre alla maschera antigas si tirò via quell’altra maschera, quella che quasi tutti indossiamo sempre. Parlò con me, giovane sconosciuta, come avrebbe parlato a un vecchio amico. La fuga dalla Francia nel ‘40, l’America, i figli che poi avevano voluto tornare nella Terra Promessa: e ora tanti nipoti. I soldi, che adesso non gli sembravano contare così tanto. Il rimpianto di una pace sempre inseguita. Mai avuta davvero, nemmeno ora che era ricco: e tremava di nuovo per i suoi, L’ora nella sealing room dell’Hilton passò in un lampo, portando un dono inaspettato: il cuore di uno sconosciuto a nudo, senza infingimenti. Anche questo, scoprivo sbalordita, accade, in guerra.
La sera dopo, all’allarme, restai in camera con la luce spenta. Vidi come uno stormo di luci rapinose nella notte, subito intercettate dai Patriot, e abbattute. Altrove, nelle periferie, qualche Scud colpiva: chi ebbe la casa distrutta, chi rimase ferito, chi, anziano, morì per la paura. Il giorno dopo andai dove uno Scud all’alba aveva colpito una scuola per bambini handicappati. Ma era accaduto di Shabbath, mi disse quasi piangendo una giovane maestra, e i suoi bambini erano vivi. Girai parecchio, fra un allarme e l’altro. Andai in Samaria, oltre Ramallah, dove dei coloni scavavano le fondamenta di un nuovo kibbutz. Una giovanissima madre, Rachel, era stata uccisa lì in un agguato, e sulla sua tomba si costruiva: «Devono sapere che per ognuno di noi ucciso, nasce un nuovo insediamento», mi disse un vecchio con la faccia scolpita di rughe, la zappa nelle mani.
Gerusalemme vecchia con le sue gallerie e i suoi mercati era deserta. Nella Basilica, nessuno. Vi rimasi dentro una notte, come una pellegrina, tra gli echi delle funzioni greche, ortodosse, cattoliche, alle diverse ore. Indimenticabile notte: penombra, silenzio, freddo, un freddo antico che mi entrava nelle ossa. Sono rimasta un’ora nell’edicola del Sepolcro, io da sola, un’ora, in quel luogo sempre assediato dai pellegrini. Nessuno, e quella pietra liscia sotto la mia mano. Fuori, la mattina, nel bazaar, desolati i venditori, davanti alle fila di merce intatta. Ma fra gli arabi percepivi sguardi ostili. «American?», chiedevano. «Italian», rispondevo, e allora si ammansivano un poco. Ma il giovane arabo che di corsa ti veniva addosso e ti urtava forte non lo faceva per scherzo, e i suoi amici, intorno, ridevano troppo. Come un’onda minacciosa adagio si andava sollevando. «Tutto ciò che voi chiamate libertà, diritto, democrazia, per noi è offesa alla nostra religione», mi disse poi ad Amman Ali Hawamd, un esponente dei Muslim Brothers. Aveva ragione la vecchia palestinese nel campo profughi di Ramallah, che incontrai appena dopo la sconfitta di Saddam, il 28 febbraio: «Per me non è finita nessuna guerra. Ne verrà un’altra, e poi un’altra. Non finirà così». E nella redazione di “Al Fajar”, giornale palestinese, un collega dall’ottimo inglese, reduce da studi a Londra, confortava gli amici: «Fra pochi anni un altro paese islamico farà la guerra all’Occidente, e altri gli saranno accanto. L’islam contro il mondo».
Era che in quel posto, mi dicevo, chiunque incontravi ti diceva le sue ragioni, e ciascuno aveva tanta ragione. E quando tutti hanno troppa ragione, una ragione coriacea, rancorosa, motivata, la pace è impossibile. Vidi con i miei occhi come i soldati israeliani trattavano ai posti di blocco i palestinesi: e quella madre con una bambina malata in braccio, che non lasciarono andare all’ospedale. Oppressi e oppressori erano da ogni parte, e, ovunque, sofferenza e rabbia. Quanto a me, in una pausa del mio servizio ero tornata brevemente in Italia. All’aeroporto, mentre l’aereo era pronto al decollo, suonò l’allarme. Per un istante immaginai una scheggia di Scud sul serbatoio colmo di carburante: e finalmente ebbi paura. Ma non solo: in quello stesso momento capii che nemmeno quella era davvero la mia vita. Che ne volevo un’altra: una famiglia, dei bambini. Mai come in quell’attimo sulla pista del Ben Gurion, l’aereo fermo nel buio, l’avevo capito davvero.