martedì 23 luglio 2024
L’emergenza droga degli anni Ottanta, le tensioni sociali e politiche. Ma anche un’umanità che superava l’essere estranei
Carabinieri sul luogo di un delitto a Milano

Carabinieri sul luogo di un delitto a Milano - .

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Primi anni ‘80, era il tempo degli eroinomani tirati su all’ultimo momento da un marciapiede, lividi, gli occhi sbarrati. Nei posti di Polizia degli ospedali, all’alba, erano in tanti. Dalla barella i più lucidi, tremanti dentro una coperta, declinavano a fatica nome e cognome, biascicando come ubriachi. Ragazzi di vent’anni. Molti avevano cognomi del Sud, indirizzi di periferie estreme. Figli di immigrati arrivati bambini a Milano. Il destino dipendeva da chi incontravano in cortile, o al bar: ce n’erano di presi, e di lasciati. Cronista principiante della Notte, quotidiano del pomeriggio, attendevo da un poliziotto in quegli uffici pieni di fumo il nome di un morto, e ascoltavo le inflessioni dialettali degli agenti - le stesse degli arrestati.

A Milano li chiamavano ancora “terroni”. Quegli agenti venivano dai medesimi paesi, ed erano emigrati negli stessi blocchi di cemento, vie Gluck tra la Tangenziale e i primi prati. Loro, però, avevano scelto la divisa. Erano quelli che pochi anni prima nelle vie di Milano venivano insultati dagli ultrà di sinistra: “Fascisti!”, urlavano ai figli dei braccianti i figli dei borghesi. Nell’incrociarsi di parlate del Sud, la straniera ero io: che me ne stavo più che potevo zitta, e osservavo ogni particolare. Le braccia viola di lividi dei tossicomani, le giovani facce scarnite. Mi ricordavano certi Cristi di El Greco. Erano anche ladri, o scippatori, certo, eppure su quelle barelle non sembravano che poveri figli disgraziati. Figli di madri e padri che certamente, a quell’ora, li stavano aspettando nell’angoscia, svegli.

Fare la cronaca nera era come guardare nel caleidoscopio di quando ero bambina: forme infinite, che non avrei mai immaginato - ma quanto scuri i colori. Venivo da una Milano beneducata: già mi sarebbe sembrata trasgressione calpestare un’aiuola. Di colpo mi ritrovavo sull’altra sponda, in quel cerchio di esuli, di sradicati che con fatica si conquistavano un lavoro e un tetto. Milano, in realtà, erano almeno due: quella mia casa, della sarta in via della Spiga dove mia madre provava i vestiti. E un’altra, di case minime sbrecciate, che scoprivo sbalordita. Una sera del novembre ’81, al Lorenteggio, ci fu un regolamento di conti fra bande rivali. Ne rimasero a terra quattro: tre spacciatori e un povero benzinaio che era andato a bere il caffè. Poche ore dopo, nel grigiore dell’alba, restavano sul marciapiede le sagome disegnate col gesso delle vittime, nel lampeggiare blu delle Volanti. Li conoscevano bene quei tre, nel bar accanto: l’aria da bulli, e sempre su una Bmw nera. “Tre di meno”, si dicevano quel mattino i clienti onesti, soddisfatti.

Gli spacciatori erano i morti che non contavano niente, nemmeno per i giornali. Li si trovava riversi in una roggia lungo l’autostrada, al mattino, al collo il crocefisso che, mi stupiva, portavano tutti sul petto. Perdenti di cui la città si liberava quasi volentieri. Al mio giornale, che stava in tasca a tutti gli impiegati la sera sui tram, interessavano le storie della brava gente: l’anziana raggirata, il tabaccaio rapinato. Un giorno in via Santa Sofia, in pieno centro, si barricò un folle armato, con sette ostaggi. Attorno all’edificio circondato dalle Volanti in pochi minuti si andò accalcando la folla. Passanti, commesse, pensionati, il Corriere sottobraccio. Me lo ricordo bene, perché fu il mio primo servizio di cronaca. Mi mescolai alla folla: si andava creando una miscela oscura di paura e insieme voglia di vendetta. Quel tale aveva già sparato e ucciso un ostaggio, sei ne aveva ancora nelle mani. La gente ribolliva di una silenziosa rabbia, rotta solo da qualche voce: “Ammazzatelo!” E ingrossava la folla, e sembrava che i presenti non fossero più individui, ma una massa indistinta che oscillava nelle spinte dei più arrabbiati.

Ne ebbi paura, e mi tirai indietro. Ad ogni figura intravista al portone, lo scatto in avanti di quella massa di uomini tranquilli, di padri, di donne: voglia di linciare. Il folle infine rilasciò gli ostaggi, e sparò a sé stesso, e all’ultima prigioniera. Tornai scossa in redazione, già i miei colleghi battevano freneticamente sui tasti delle Olivetti, in un fracasso di mitraglia. “Non saprò mai scrivere veloce come loro”, pensai, e me ne uscii avvilita. (Del resto non mi avrebbero lasciato scrivere che ciò di cui avevo avuto più paura era la brava gente di Milano - eravamo noi, in quell’assedio irriconoscibili).

Una volta mi mandarono a Pioltello. Un lettore ci aveva scritto: viveva solo con una moglie psicotica che minacciava di uccidersi, o di uccidere. La casa era l’ultima prima dei campi, bianchi di brina in un giorno di gennaio. Una villetta decorosa. Mi aprì il marito, mi fece accomodare, quando in cucina entrò la moglie: giovane, graziosa, gli stracci per le pulizie in mano. Il profumo del caffè, sul muro il calendario di Frate Indovino. Tutto così normale. Quando lei uscì, l’uomo mi mostrò le diagnosi degli psichiatri, le scatole di farmaci che la moglie rifiutava. Schizofrenia. Certe sere si trasformava, e affacciata alla finestra parlava con una donna su una torre, che solo lei vedeva. E più parlava e più alzava la voce, urlando all’ombra: “Maledetta, vattene!” Ed arrivava a brandire i coltelli da cucina. La casa più vicina però era a cento metri. Nessuno sentiva. Se fosse scoppiata la tragedia tutti avrebbero detto “Incredibile, quella signora graziosa, la vedevo sempre che curava il giardino”. E ogni giorno che passava mi pareva di capire che le finestre allineate nel buio della città talvolta erano celle impenetrabili, benché in mezzo a migliaia di uomini.

Mi mandarono, una mattina di primavera, su un suicidio. Un ragazzo malato si era buttato dal dodicesimo piano. Le facce, il silenzio della gente, in quel cortile. Ma io non capivo come fosse umanamente possibile buttarsi da quell’altezza vertiginosa. Allora salii all’ultimo piano, la casa era vuota, andavano e venivano gli agenti. Mi affacciai e, sgomenta, arretrai. Era una cosa disumana, pensare di buttarsi. A meno, intuii però, di essere inseguiti dal fuoco. Non c’era però alcun incendio lassù. Solo una stanza disadorna di adolescente, delle stampelle, una bombola d’ossigeno. Forse c’è una disperazione che brucia più del fuoco?, mi chiesi. Giù in cortile, nessuno si era mosso. Cominciavo a guardare quelle facce sconosciute con una strana affezione, che prima non avevo. Come se, estranei, pure qualcosa ci unisse, e soprattutto ciò di cui tacevamo: la solitudine, il bisogno d’amore.

Come ho detto, a vent’anni non ero credente, e anzi avevo un’avversione per una fede moralista che mi era stata insegnata. Tuttavia era come se senza averne coscienza andassi cercando qualcosa, o qualcuno, nelle facce degli uomini, in certe albe di Milano. Un giorno in un cortile di via Forze Armate, dove c’era stato un omicidio, aspettavo che scendesse il fotografo, per tornare in redazione. Mi arrivò davanti una bambina sui 5 anni, i capelli rasi a zero per debellare i pidocchi, e così magrolina. “Io ho un tesoro qui!”, mi disse sorridendo, mostrando il pugno serrato: “Indovina cos’è”. E io, chinatami alla sua altezza, cercavo di indovinare. Un anellino? Una moneta? Lei infine ridendo spalancò la mano: nel palmo aveva un ovetto di cioccolata, mezzo sciolto nella stagnola. Ma come mostrava il suo tesoro, la bambina di via Forze Armate. Indimenticabili, quei suoi occhi grandi occhi neri. Felice di un niente: sola in quel cortile di cemento, eppure certa che la vita fosse buona.

2 - continua

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