Candidate alla selezione del concorso di Miss Italia negli anni 90 - Ansa
Anno 1987, Milano, la sera di Sant’Ambrogio. Auto blu e taxi lasciavano davanti alla Scala gli spettatori della “Prima”: Don Giovanni di Mozart, direzione di Riccardo Muti. Ferma all’ingresso del teatro li osservavo: erano i potenti dell’era di Craxi, e stilisti famosi, e grandi ricchi. Osservavo con più attenzione le donne che li accompagnavano, in abiti firmati, coperte di gioielli. Spesso, i lineamenti troppo tirati di un lifting eccessivo. Le mogli dei potenti lottavano per rimanere belle. Intravedevo, in questa battaglia, qualcosa di triste. Coglievo parole del cicaleccio nel foyer - Cortina, Sankt Moritz, Gstaad, già si parlava di vacanze di Natale. Scintillava in quella sera alla Scala la Milano di Craxi, non sapendo quanto prossima era la sua fine.
Io non ero più alla Notte, ero passata a Repubblica. Non scrivevo più di cronaca nera. Un pomeriggio d’ inverno ero stata mandata a Como, sul suicidio di una ragazzina di 13 anni. Buona famiglia, figlia unica, una che aveva tutto. A casa trovai solo il nonno, impietrito: e quanto avrei voluto non essere lì, quando era evidente che in quella casa bisognava solo tacere. Tornai che nevicava, ammuto-lita, ma decisa: basta con i morti, le rapine, con gli attentati delle Br. Con i milanesi sul marciapiede che avevano visto tutto ma tacevano, pallidi, impauriti.
Ora mi occupavo di spettacoli. Cinema, teatro, le giovani tv di Berlusconi. E, quella sera, la Scala. Pensavo che avrei dovuto essere contenta di essere lì, nel cuore della Milano “giusta”. Invece non lo ero. L’arroganza degli sguardi, i pettegolezzi a bassa voce mi facevano rimpiangere i Posti di Polizia degli ospedali, o le facce di Vallanzasca e compagni, dietro alle sbarre della Corte d’Assise. C’era più umanità tra i disperati che in quella fiera della vanità, a Sant’Ambrogio. Di Pietro era ancora uno sconosciuto sostituto procuratore, e i ragazzi in eskimo che lanciavano le uova non c’erano più da un pezzo. Finita la contestazione, Mani pulite di là da venire, la Milano da bere luccicava, in un sapore di nulla.
Sapevo però, per avere frequentato per un reportage la Scala, quale mondo meraviglioso stesse dietro al pesante sipario di velluto cremisi. Per ore avevo ascoltato le prove del coro, le voci dei coristi che tornavano quattro, cinque, sei volte sul medesimo passaggio. Pazienti, devoti al Maestro, ripetevano, senza protestare. Li osservavo: molti avevano voci bellissime, ma non avevano avuto fortuna, oppure mancavano del coraggio che ci vuole per stare da soli quando il sipario si apre, davanti al teatro buio come una bocca spalancata: e con voce sicura iniziare a cantare.
Ciò che mi incantava però della vecchia Scala era, all’ultimo piano, negli abbaini, il guardaroba di coriste e comparse. Vi si accedeva per scale strette e si sbucava in stanze odorose di amido da stiro, e naftalina. Indimenticabile assistere, due ore prima dello spettacolo, alla complicata vestizione di cento donne tornate ai tempi del Don Giovanni: gli abiti lunghi, le gonne gonfie di trine, i corpetti stretti che tra compagne ci si allaccia reciprocamente. E le parrucche cariche di riccioli, e il trucco. Ogni donna davanti a uno specchio, e il rossetto, il mascara, la cipria. Le scarpe troppo strette, la fretta, perché già suona la prima delle tre chiamate, come alla partenza di una grande nave: ed ecco che le dame scendono veloci per le scale anguste, reggendo con una mano la gonna lunga, che inciampa i passi – che stupore, ritrovare quel gesto da illustrazione di libro di Cenerentola.
Me ne stavo affascinata come una bambina a vivere il segreto gineceo all’ultimo piano della vecchia Scala, ora purtroppo scomparso. Felice di essere ammessa a quella danza di complicità, profumi, tocchi leggeri ad aggiustare la veste di una collega. Dentro una fiaba: il lato nascosto della Scala era un sogno. E onirico il via vai di comparse abbigliate, di volta in volta, da antichi Egizi o guerrieri nordici, nella cosiddetta “cambusa”, il bar del personale. Si spalancava l’ascensore e ne usciva un manipolo di Longobardi con scudi e spade ed elmo, che al banco ordinavano un Campari; oppure animatamente discutevano di un rigore negato al Milan, la domenica prima. In quel teatro dell’assurdo, in cui ciascuno non era ciò che sembrava, sarei rimasta ore a osservare.
Il luogo dei sogni viventi, questo era Scala; nel retro del palcoscenico volentieri mi sarei persa, non tra la folla della “prima”, a Sant’Ambrogio. Gente che poi, a ben guardarla, nemmeno mi sembrava davvero felice, ma tesa in una gara estenuante: chi era il più potente, chi era la più bella. Malinconici però in fondo gli occhi delle mogli liftate, e ansiosi quelli degli Onorevoli, e principi del Foro, e giovani rampanti. No, non uomini felici, nemmeno a Sant’Ambrogio, alla Scala. (Continuamente, da un mondo all’altro, continuavo a cercare qualcosa che non trovavo). Anni dopo, già inviato di Avvenire, ritrovai quel sapore di competizione, ma acerbo e ancora grezzo, alla finale di Miss Italia, a Salsomaggiore. Ciò che vedevo delle prove dalla platea, mi pareva insulso. Ero abbastanza giovane per poter sembrare la madre di una concorrente: infatti, credendomi tale, mi lasciarono entrare nel backstage. Le miss, bellissime fresche ragazze ansiose di successo, docilmente obbedivano alla coreografa che insegnava come muoversi sul palco. Tutte in fila, come in una vetrina di Barbie. Guardavo le madri, non si sentivano avvilite nel vedere le figlie ridotte a bamboline? No, affatto: anzi quanto commosse erano quelle belle donne sui quaranta, appena appena sfiorite, e quanto ardentemente speravano che la figlia avesse la fortuna che a loro era mancata.
Mi immalinconiva vedere quelle adolescenti ballare goffamente, o spiarsi reciprocamente davanti agli specchi: “Guarda quella, com’è grossa! E ha i capelli tinti”. Ma le miss dovevano andare in scena, e alcune non avevano capito ancora come muoversi. La maestra perse la calma e gridò con franchezza il succo della lezione: “Lassù sul palco non dovete sembrare puttanelle, ma brave ragazze!” Guardai le ragazze, guardai le madri: non una piega. Che fine aveva fatto il femminismo? Ma l’era delle vallette era iniziata, e un passaggio in tv valeva ogni prezzo. Pasolini aveva scritto: la tv sarà come un trattore sulle coscienze degli italiani. Avevo visto il primo ruggire del trattore, nel backstage di Salsomaggiore.
Una sera per Repubblica andai al Casinò di Campione, dove era attesa Sofia Loren. Aveva 54 anni, che a me allora parevano tanti, ma ancora era bellissima. Scese da una limousine come una regina, come una regina sfilò fra le ali dei fotografi che la bersagliavano di flash. Sfiorai, entrando, un signore con i capelli grigi, non invitato, che restava fuori. “E’ da stamattina che la aspetto, ho desiderato per tutta la vita di vederla con i miei occhi”, mi disse commosso.
La più famosa diva del Dopoguerra era perfettamente cosciente di essere diva ancora. Lo specchio color cenere del lago in quella sera brumosa, malinconico, non sembrava intristirla, lei ancora così orgogliosa. Davvero non temeva la vecchiaia? Quel suo volto fiero impenetrabile mentre se ne andava, come neanche vedendo la folla di ammiratori. S’infilò nella limousine blu traendo a sé con consumata maestria il lembo dello strascico, dell’esatto colore del lago. Quel gesto da gran dama, il fruscio serpentino della seta lucente: avevo visto una leggenda. Eppure, pensavo tornando verso Milano, nemmeno l’ultima diva, il grande sogno dell’Italia anni ’50, mi era sembrata felice. Dovevo cercare altrove.
4 - continua