«Maestro» è espressione abusata nell’ambito accademico per indicare la persona a cui si deve, tra l’altro o fondamentalmente, l’incoraggiamento e l’appoggio principale nella complicata e perigliosa carriera. Non è di questo maestro che sto parlando. Francesco D’Agostino è un maestro di genere molto superiore: è stato per me un vero Maestro, di vita, di sapere, di lavoro, di fede, di laicità, d’uso cristiano della ragione, di cultura, e in questi ultimi, dolorosi tempi, di sobrietà e dignità. Ho ricevuto un piccolo regalo da lui, verso il tramonto: una telefonata piena di vita e di affetto, in cui condivideva le ultime notizie sulla sua salute e mi chiedeva di mia moglie, della nostra bambina che tanto desiderava conoscere di persona. Era un congedo, ma non lo sapevamo: e con quella voce, con quell’atteggiamento il mio Maestro rimane.
Quando intrapresi il percorso professionale, venticinque anni fa, non immaginavo che un rapporto lavorativo potesse evolvere in modo simile, attingendo profondità esistenziali e generando una specie rara e insolita di filiazione. Ma l’analogia non è forzata e la sensazione dell’orfano è forte: non è solo l’accademia e la filosofia giuridica che hanno perso un protagonista, non è solo la bioetica che vede dirigersi risolutamente verso l’aldilà uno dei suoi più acuti interpreti, non è solo la cultura italiana che da oggi piange una grave assenza e si aggrappa all’ampio patrimonio di scritti che ci ha lasciato, non è solo l’approccio cristiano ai problemi morali e sociali del nostro tempo che si trova senza un decisivo punto di riferimento. Nella morte di questo Maestro sono io che devo accomiatarmi da un padre che, come succede ai padri migliori, con l’invecchiare dei figli diventano anche i loro amici e confidenti, insegnando al crepuscolo la saggezza più difficile, quella della fragilità, e l’arte più fruttuosa, quella dell’accettazione.
La telefonata precedente era stata più lunga e ampia, Sabato Santo: mi chiamò per scambiarci gli auguri pasquali e fu l’occasione, come spesso in precedenza, per fare il punto reciproco su tante questioni aperte, biografiche e lavorative. Da parte sua, il consueto (molto caldo, negli ultimi anni) incoraggiamento, e qualche nuova confidenza, a cui cominciavo ad abituarmi, piccoli squarci dalla sua ricca vita interiore, dalla sua fede sorprendentemente profonda e semplice, dalla sua umanità attenta e discreta, accuratamente lontana da ogni invadenza. Mi spiegava che si avvicinava alla fine, che la sua malattia con alti e bassi proseguiva inesorabile il proprio itinerario, ma che non chiedeva di meglio alla vita, dopo tanti anni di attività: niente di meglio di questo, di godersi l’amore della moglie e dei figli, la vicinanza dei piccoli vivaci nipoti, e la possibilità di sentire e, quando possibile, incontrare gli amici, tutti e ciascuno dono di quel Dio che sempre più intensamente frequentava. Mi colpì questa confidenza: non era l’aurea mediocritas di un uomo anziano e malato vicino alla fine, pieno di nostalgie e costretto ad accontentarsi; era piuttosto l’intuizione definitiva, certamente propiziata dalla vita interiore, dalla fede, dalla cultura profondamente metabolizzata, su ciò che va e ciò che resta, ciò che dovremmo lasciare senza preoccupazione e ciò che dovremmo trattenere perché ci accompagni fino alla fine, oltre il transito. Arrivederci, Maestro.
Professore associato di Filosofia del Diritto Università di Perugia