Gentile direttore, le scrivo per esprimere tutta la mia amarezza. Le cronache di questi ultimi giorni e "newsletter" per noi medici mi hanno reso consapevole del fatto che associazioni che si rifanno all’area del Partito radicale stanno chiedendo che nei concorsi venga riservata una quota ai medici ginecologi non obiettori, mentre esponenti del Pd hanno chiesto di evitare che nei presidi sanitari ci sia più del 50% di medici obiettori. Addirittura un magistrato presentato come «esperto di diritto di famiglia» è arrivato a suggerire la possibilità di denunciare una struttura sanitaria per «omissione di atti d’ufficio» e «interruzione di pubblico servizio» nel caso in cui una donna non possa abortire in quello stesso presidio a motivo del fatto che «non ci sono medici non obiettori». Sono d’accordo nel perseguire chi fa la scelta dell’obiezione di coscienza solo per "comodità" e poi, magari, nel privato non è affatto obiettore (come alcuni casi di cronaca in passato hanno dimostrato), ma credo che questa sia un’eccezione; come eccezione è il poliziotto che delinque o l’avvocato che patteggia di nascosto con l’avversario o qualsiasi altro professionista che fa esattamente l’opposto di quanto la sua professione richiede. Perché invece non ci si chiede come mai ci sono tanti obiettori? Invece di pensare che i ginecologi siano obiettori perché non vogliono "lavorare", perché non si pensa che forse l’aborto è un "intervento" che i ginecologi non amano fare per altri motivi? Mettere addirittura la corsia preferenziale nei concorsi per i non obiettori mi sembra veramente un colpo basso alla libertà di coscienza delle persone. Quanto potrebbe dirsi "civile" una società del genere?
Miriam Valentini
È vero, cara dottoressa Valentini. Sempre più medici – ginecologi e anestesisti – obiettano davanti all’aborto: non se la sentono di uccidere il bambino ancora non nato, sebbene una legge dello Stato abbia depenalizzato ormai da anni anche nella nostra Italia questa pratica dolorosissima e, comunque, terribile per le donne che decidono di ricorrere a essa. Condivido totalmente il suo amarissimo ragionamento e il suo allarme, che del resto in tante e diverse occasioni – a partire dalla cronaca – s’è articolato sulle pagine di Avvenire. Ma soprattutto condivido lo spirito della sua vibrante domanda finale. I paladini di "libertà" che si fanno arbitrio gettano definitivamente la maschera (o, meglio, quel che ne resta) e si rivelano per quel che sono: vorrebbero negare persino la libertà di coscienza, e premono per ottenere regole liberticide, tese a discriminare e penalizzare i medici che rifiutano di farsi somministratori di morte. È sempre più chiaro che si pone una grande questione di civiltà e di umanità. Per Emma Bonino la «coscienza» sembra sia nient’altro che un virus maligno, visto che è arrivata a polemizzare contro l’obiezione di coscienza, definendola con orrore una «epidemia contagiosa» da debellare. Tristissimo, e orribile, è un simile pensiero. Per ciò che dice, e per ciò che prefigura. Altro che colpo basso, cara dottoressa, una società nella quale si negasse lavoro a un medico che fedele all’antichissimo giuramento di Ippocrate rifiuta in scienza e coscienza di uccidere una vita nascente (e, magari, di questo passo, un malato grave o un disabile gravissimo…), sarebbe una società governata dalle inique regole di una inumana tirannia.