Gentile direttore,
ho una storia nel cuore che mi toglie il respiro e vorrei affidargliela. C’è una ragazzina, in Africa, che sta soffrendo. Appena tredicenne, è costretta a lavorare da mattina a sera senza posa, è la serva dell’intera famiglia. È alta, carina, esile. I capelli, di solito raccolti nelle caratteristiche treccine. In un certo senso, ha il suo caratterino, ma se essere anche tanto dolce e affettuosa.
Non è una notizia, è vero, perché moltissime sue coetanee vivono in condizioni anche peggiori. È una storia, però, perché sul registro di classe leggo ancora il suo nome, e ogni mattina vi accumulo accanto una nuova assenza. È regolarmente iscritta, ma non è ancora rientrata dalle "vacanze" in Senegal, dove passa ogni estate. Le compagne l’hanno attesa a lungo, e solo da poco ci è stato detto che non tornerà, perché "ha preferito restare" nel suo paese d’origine. Nuovi amici, nuova vita. Abbiamo pensato che fosse felice, ha scelto lei, così ci avevano detto... Ma stamattina abbiamo sentito la sua voce al telefono. Ha chiamato a scuola, la segretaria incredula, la dirigente visibilmente commossa... «Io e mio fratello stiamo male, vogliamo tornare in Italia». È solo una bambina, che però ora si staglia davanti a me come un gigante. Non so quanto le sia costata quella telefonata, ma di certo è prova di un coraggio eroico. Non è facile scappare da un mondo che ti opprime, che ti vuole donna, subito, senza scampo, ma ci sta provando con tutte le sue forze. Qui era ancora una bambina, ma sapeva bene che la scuola, per lei, non era un vuoto passatempo, né tantomeno un obbligo di legge cui assolvere fra noia e svogliatezza. Solo la scuola le avrebbe potuto offrire un futuro diverso. Forse anche per questo non le è stato permesso di ritornare.
C’è una bambina, in Africa, che ha chiesto aiuto. Non è una voce che si confonde fra milioni di sofferenze e tragedie, troppe per poter essere anche solo ascoltate. Questa è una voce nitida, è un assolo cui vorremmo poter rispondere. La ringrazio per l’ascolto, molti cordiali saluti.
Cristina Tassi, Faenza (Ra)
È toccante la storia di questa esile ragazzina senegalese e romagnola. Coinvolgente come tutte le storie vere di persone vere che non riduciamo a numeri buoni solo per statistiche senz’anima e non rinchiudiamo in una qualche “categoria” utile solo a confezionare giudizi e fomentare pregiudizi. Grazie, gentile e cara amica, perché lei, condividendola con me e con noi tutti, contribuisce in modo molto bello ed efficace al lavoro che cerchiamo di fare ogni giorno. Abbiamo bisogno di questa conoscenza diretta e personale del “fatto” che gli altri sono, un fatto di vita che ci attornia e ci riguarda. E per diventare e restare pienamente umani abbiamo bisogno di questa prossimità e di questa verità che costruisce rapporti vitali e comunità. Se la realizziamo e la teniamo cara, riusciamo a parlare senza presunzione (e senza cattiveria) delle “vite accanto” alle nostre: quelle dei nostri allievi e delle nostre allieve, dei nostri colleghi e delle nostre colleghe di lavoro, delle persone che ci sono vicine di casa, di strada, di paese o di città e che magari, appunto, sono anche arrivate da lontano o sono nate da mamme e papà che da lontano sono venuti a vivere e a lavorare con noi.
Si fa presto a dire «stranieri», ma quella bimba di genitori senegalesi, cresciuta in Italia, fatta grande troppo presto e strappata alla sua vita tra la via Emilia e l’Adriatico, ci è davvero straniera? Che cosa chiede, a chi sa ascoltare, la sua giovanissima voce appesa all’auricolare di un telefono in un totale – «eroico», dice lei – atto di dolore e di affidamento verso le persone e l’istituzione di cui ha imparato a fidarsi? Lei, cara professoressa, consegna e me a agli amici lettori domande forti, la commozione della preside e l’incredulità dolente della segretaria dell’istituto dove insegna. Facciamone buon uso. Possiamo immedesimarci con voi che siete parte di questa nostra Scuola italiana: tanto amata, troppo vituperata e così degna di stima... Questa Scuola che è anello cruciale di una rete educativa che bisogna rinsaldare e potenziare.
«Vorremmo poter rispondere», lei scrive, a quella voce di bambina... Che cosa posso dire che voi già non sappiate? Cercate, cercate con rispetto e delicatezza eppure con passione, di parlarne con la famiglia della piccola, proprio come fareste – e certo avete fatto cento volte – per ogni ragazzina o ragazzino con un problema da risolvere o una occasione da cogliere. Questo problema, certo, è più complicato e più duro, lo so. E la speranza di una alunna assente, ma non ancora perduta, è purtroppo esile. E non saprei immaginare quanto nella “vacanza” mai finita e nel lavoro già adulto di una bambina c’entrino le tradizioni del Paese d’origine suo e del suo fratellino, e quanto la difficoltà a vivere in un’Italia dove, in questi anni, tanti (anche stranieri residenti) sono diventati più poveri e tanti altri più sospettosi e aspri. Temo che c’entrino entrambe le cose. Ma soprattutto credo nella bellezza di ciò che voi insegnanti avete già fatto nella storia di una ragazzina romagnola e senegalese: siete il pensiero che la consola, la sua storia migliore, la speranza che trova voce, e anche un filo che corre nell’aria dall’Africa sino a una città italiana. La bontà di ciò che avete fatto parla con le parole di una bambina italiana dalla pelle nera. Spero riusciate a farlo sentire a chi può riportarla a casa sua. Spero che ci siano occhi capaci di vedere il futuro dalla parte di questi giovanissimi non solo italiani, ma italiani certamente. E che nessuno si metta di traverso.