Folla in piazza Beccaria a Milano per i funerali di Lea Garofalo il 19 ottobre 2013. La donna era morta nel 2009 (Fotogramma)
Dieci anni fa, il 24 novembre 2009, moriva a Milano Lea Garofalo, testimone di giustizia, uccisa dal suo ex compagno, Carlo Cosco, boss ’ndranghetista di Petilia Policastro. E poi bruciata per annientare la sua vita e la sua scelta. Una storia di coraggio e di ricerca di libertà, una donna e madre calabrese che decise di rompere le regole di omertà e di una distorta concezione della famiglia, pilastri della cultura della ’ndrangheta. Una scelta per amore di sua figlia Denise. Ma pagata con la morte.
«Fu una sconfitta di tutti – ammette don Luigi Ciotti, presidente di Libera –. Lea sapeva di essere in pericolo. Non potrò mai dimenticare quel giorno a Firenze: alla fine di un convegno fui avvicinato da una donna che mi chiese aiuto per sé e la figlia: era Lea. Non voleva che la ‘ndrangheta rubasse a sua figlia la vita come l’aveva rubata a lei. Era una donna angosciata e sola. Lo Stato poteva e doveva fare di più». Non una morte invano. Oggi sono una trentina le donne che hanno deciso di lasciare l’ambiente mafioso per salvare se stesse e soprattutto i figli. Altre hanno intrapreso il percorso. E sono 70 i minori allontanati dalle proprie famiglie ’ndranghetiste, spesso su richiesta delle madri, o assieme a loro. Non mancano interi nuclei familiari. E anche alcuni padri in carcere al 41bis cominciano a chiedere di salvare il figli da un destino mafioso. Un percorso di cambiamento frutto dell’intuizione e dell’impegno del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, assieme a Libera. È il protocollo 'Liberi di scegliere', nato col sostegno economico della Cei e che dal 5 novembre vede schierarsi anche i ministeri dell’Istruzione, della Giustizia e delle Pari Opportunità, e la Procura Nazionale Antimafia.
Tutto questo allora non c’era. «Quella situazione poteva essere evitata – commenta amaramente il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho –. Oggi non sarebbe avvenuto. Da alcuni anni c’è un’attenzione altissima per coloro che decidono di allontanarsi da contesti mafiosi, portando con sé i figli. Laddove ci sono state delle dichiarazioni, indipendentemente dalla rilevanza e dall’utilizzazione che esse hanno avuto, l’esposizione al rischio è tale da richiedere comunque una vigilanza. Quando Lea Garofalo era costretta a spostarsi ripetutamente perché si sentiva quasi raggiunta dai mafiosi, nessuno è intervenuto per proteggerla. Oggi a Reggio Calabria abbiamo tanti testimoni o dichiaranti che sono restati sul territorio perché lo Stato è in grado di garantirne la sicurezza, anche in mancanza dell’inserimento in un programma per testimoni di giustizia». Ma soprattutto ora «c’è una rete di protezione sociale molto importante che è stata cristallizzata in protocolli – sottolinea Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, il 'padre' di queste iniziative –. Ci fosse stata allora non avremmo avuto quel drammatico esito. Ora ci sono gli strumenti economici, organizzativi, psicologici per poter sostenere queste donne». Decisioni dure, spesso drammatiche. Ma di grandissima importanza. «Sono donne infelici – le descrive don Ciotti che ne ha incontrate e seguite molte –, che dicono basta a una vita d’inferno, il più delle volte trascorsa tra un carcere e l’altro, dove si recano a visitare i mariti e poi, spesso, i figli. Una vita schiacciata dalla paura, soggetta al costante rischio di ritorsioni e vendette. E dalla quale decidono di affrancarsi quando, vedendo i propri bambini giocare e sorridere, si ribellano all’idea che un giorno anche loro saranno prigionieri di un mondo disumano».
Scelte che, secondo Di Bella, nascono «perché finalmente queste donne entrano in contatto con la loro sofferenza che con la nostra attività abbiamo messo in luce». Scelte che colpiscono a fondo le mafie perché «se una donna sta male e decide di andare via per liberare se stessa e i suoi figli, dà un colpo importante alla credibilità del sistema criminale».
Ma chi sono queste donne? È sempre il presidente del Tribunale a raccontarcelo: «Alcune sono 'vedove bianche', donne che hanno i mariti all’ergastolo, sono ancora giovani, hanno figli piccoli, e sono chiuse nella famiglia di appartenenza, perché non possono avere altre relazioni, neanche amicali. Vengono da noi per coltivare la speranza di riscatto». E vanno sostenute poiché, conferma il procuratore, «contribuiscono a rompere la forza delle mafie, quella tradizione di rigidità e di chiusura. Le mafie a lungo sono state un fortino da cui non poteva uscire nessuno. Queste donne ora vivono meglio, da persone libere, non sono costrette a temere ogni giorno la reazione degli altri gruppi mafiosi o l’arresto. Sono il sintomo di una debolezza delle mafie e il simbolo della libertà».
Tutto questo è finora il frutto alleanze tra magistratura e volontariato. Ma parziali. L’ultimo protocollo ha, infatti, la durata solo di tre anni. E allora dai protagonisti viene un appello. «Potremmo avere risultati ancora più importanti – avverte Di Bella – se questo protocollo diventasse legge dello Stato, con una continuità giuridica, sociale, economica». È 'la 'terza via', ripete spesso don Ciotti, «perché la loro condizione non rientra negli attuali parametri di legge. Queste donne sono spesso giovani e non hanno commesso reati né hanno conoscenza diretta di reati da riferire alle autorità, quindi senza i requisiti del testimone o collaboratore di giustizia». Occorre, dunque, «una normativa che consenta il cambio di generalità, borse di studio per permettere ai figli di ricevere un’educazione improntata ai valori della democrazia e della giustizia e, per le madri, corsi di formazione professionale in vista di un lavoro che sopperisca alla mancanza di risorse economiche e permette una piena integrazione nella nuova realtà».
Su questo è d’accordo anche Cafiero de Raho. «Stiamo facendo una valutazione molto profonda coi magistrati che si occupano di queste vicende e con don Ciotti, perché bisogna individuare una disciplina per impedire gli aggiramenti. Attualmente le persone che scelgono di allontanarsi sono in contatto con un circuito che può assicurarne il futuro reinserimento. Bisognerebbe individuare il modello attraverso il quale, con una legge, si possa utilizzare il medesimo metodo e quindi evitare che qualcuno possa inquinare questo circuito positivo». Anche perché, insiste don Ciotti, «queste donne coraggiose rivelano che qualcosa non funziona più nella cinghia di trasmissione del modello culturale mafioso».
Le donne hanno aperto la strada. Anche per i loro compagni. Una novità che ci racconta Di Bella. «Ho interlocuzioni con detenuti al 41bis. Non tutti sono irriducibili. Mi scrivono e mi incoraggiano a proseguire sulla strada che ho intrapreso per i loro figli. Qualcuno mi ha detto 'avessi avuto io venti anni fa l’opportunità che lei ora sta offrendo, forse non mi troverei in carcere'. Un detenuto dopo 23 anni di carcere è venuto in Tribunale e mi ha detto: 'Mi aiuti, ho sprecato metà della mia vita lontano dai miei figli, voglio ricongiungermi con la famiglia, con mia moglie, sono stanco di questo tipo di vita'. Lo abbiamo aiutato, se ne sta occupando Libera nel progetto 'Liberi di scegliere'. Mi ha detto: 'Vedrà che dopo di me ce ne saranno anche altri perché c’è una grande sofferenza'».
Davvero, come riflette don Luigi, «Lea è stata e continuerà ad essere un punto di riferimento. La prova che quel sentimento di ribellione non è un’anomalia, che altre donne e altri uomini possono trasformarlo in azione, in progetto».