Il via libera della Corte Costituzionale tedesca all’Esm, il nuovo meccanismo europeo di salvataggio (il Bundestag dovrà dire la sua solo l’impegno tedesco dovesse superare il tetto dei 190 miliardi di euro), e al
Fiscal Compact fa bene allo spread e all’euro, dà un segnale chiaro ai signori dei mercati e consente all’Europa di segnare un punto e un passo avanti nella giusta direzione, quella di una sempre maggiore integrazione politica ed economica.Il che non toglie che alcune considerazioni siano d’obbligo. La prima, e forse la più evidente, ci impone di domandarci se sia ammissibile che la suprema magistratura di uno Stato membro – foss’anche la pressocché onnipotente Germania – possa tenere in scacco l’Europa per tre mesi bloccando un provvedimento cruciale per la tenuta non solo dell’area dell’euro, ma dell’intero edificio comunitario. Considerazione della quale debbono in qualche modo aver tenuto conto per primi gli stessi giudici di Karlsruhe, consapevoli che una bocciatura radicale avrebbe sollevato ben altro conflitto, quello di un potere dello Stato che metteva in dubbio la decisione di un governo legittimamente eletto e votata a maggioranza da un vertice straordinario a Bruxelles.I timori tedeschi erano e sono noti: un fondo salva-Stati con una forte dotazione di liquidità (ora ha 500 miliardi scarsi, ma a regime potrebbe arrivare a superare i 700) finirebbe per assomigliare a una sorta di Fondo Monetario Europeo; allo stesso modo le scelte della Bce guidata da Mario Draghi sono state decisive nelle ultime settimane per riempire quel vuoto che Bruxelles e i singoli Stati sovrani – in altre parole, la politica – avevano lasciato irresponsabilmente aperto: non è casuale in tal senso che il
New York Times abbia elogiato la visione strategica a 360 gradi e le manovre di Draghi che hanno lasciato «immobili come balene spiaggiate gli intransigenti banchieri della Bundesbank». E non è casuale nemmeno il fatto che –
in cauda venenum – la Corte di Karlsruhe si riproponga di pronunciarsi anche sulla legittimità dell’intervento della Bce nell’acquisto di bond, operazione che ha sostanzialmente corretto al ribasso la corsa sfrenata dello spread in vece del fondo salva-Stati che era paralizzato dall’attesa del verdetto tedesco.Ma c’è un’altra lezione che si ricava da questa vicenda. Ed è – a dispetto di tutti gli allarmismi, dei toni apocalittici troppo sovente e frettolosamente adottati, delle granitiche premonizioni e delle torve pagelle che le agenzie di rating ci elargiscono con iattanza millenaristica – una sorta di paradossale elogio della
lentezza. Perché l’Unione Europea nel suo contraddittorio evolversi adora la lentezza, che a volte pare immobilismo, come il corso maestoso e insieme pigro che hanno certi grandi fiumi asiatici, che quasi non sembrano muoversi nel proprio letto e invece giungono trionfali al mare. Da Paul Valéry ad Adorno, fino a Calvino e Kundera, sono in molti a ricordarci che la fibra segreta della modernità, il suo contravveleno, e dunque anche dell’Europa che si va unendo molto spesso è la lentezza, a volte snervante altre eroica. Pensiamo alla Grecia: data per spacciata, a un passo dalla fine, con la dracma che bussava impertinente alle porte del rientro, i governi instabili, le promesse immantenibili, la speculazione che scommetteva facile sul collasso finale già a marzo, poi maggio, poi giugno, poi nel post-elezione, poi nella tignosa ispezione della troika… O la Spagna, con le sue banche senza più fiato, le sue casse vuote, la sua disoccupazione alle stelle... E
il contagio, ricordate il contagio che terrorizzava la Germania più che la peste nera della Guerra dei Trent’anni, con la Finlandia che strepitava perché l’intero sud dell’Europa si staccasse dalla zattera virtuosa delle nazioni con la tripla A?A ben vedere, niente è accaduto di tutto ciò: Atene è ancora nell’euro, Madrid è ancora la capitale di uno Stato sovrano, la peste dello spread non ha strangolato l’Italia e non ha contagiato il resto d’Europa. Certo, si è perso tempo e risorse, tante risorse, ma ancora una volta è stata un lento navigare delle cose il ritmo con il quale l’Europa ha salvato se stessa ed è andata un po’ più avanti. Un’Europa irreversibilmente in viaggio verso un’unità politica (e pienamente ecomica) ancora di là da venire ma che rimane l’unico approdo auspicabile. Ci saranno nuovi intoppi, nuovi incagli, nuove crisi, questo è sicuro, come ce ne sono stati con il fallimento della Carta costituzionale dopo il no francese e olandese o le bocciature di Londra e Praga al
Fiscal compact. Ma in fondo ormai – possiamo negarlo? – ci siamo lentamente abituati.