Caro Avvenire,
il presidente della Lazio Claudio Lotito, per riparare all’affronto di una parte della tifoseria laziale che ha irriso Anna Frank, ha dato l’annuncio che d’ora in avanti porterà annualmente 200 giovani tifosi ad Auschwitz – presumo perché forse così li si educherà a rispettare gli altri –. Beh, detto da educatore (insegno in un istituto di Ragioneria), l’idea mi sembra buona perché la violenza verbale e ideologica nei nostri stadi da tempo ha superato il limite e pertanto coinvolgere i ragazzi perché abbiano un “altro” approccio allo sport è idea davvero ottima! E non mi importa che l’iniziativa di Lotito lasci perplesso più d’uno: va benissimo, purché si imbocchi la strada di un’attenzione all’educazione dei giovani “sportivi”! Ho visto e sentito con queste orecchie genitori dagli spalti aizzare i propri figli iscritti nelle società di calcio per giovanissimi urlare: «Spaccagli le gambe! Devi esser cattivo! Picchia duro! Non fare la mammoletta!». Tuttavia, che si sia arrivati a usare l’immagine di Anna Frank deve far pensare: la questione è che se in certi ambienti (stadi, discoteche, po-litica, contesti religiosi, immigrati, famiglie in cui magari sono in atto separazioni e divorzi...) si riversano fiumi di odio verso l’altro, se esiste la possibilità che il cuore delle persone possa covare e coltivare odio verso l’altro, verso gli altri... è perché di padri (leggi testimoni!) non ce ne sono abbastanza. Mancano, cioè, figure capaci di dettare o suggerire ideali e passioni degne per cui spendersi. Concludendo, auspico che si faccia vedere ai ragazzi che andranno ad Auschwitz non solo l’orrore, ma, molto di più, gli esempi di uomini che sotto la persecuzione nazista hanno sacrificato la loro vita dicendo no all’odio, come Edith Stein, Etty Hillesum, Massimiliano Kolbe.
Pippo Emmolo Cusano Milanino
Per quanto pochi siano stati nella curva laziale quelli che hanno immaginato di usare l’immagine di Anna Frank come strumento di scherno, l’idea è in sé sconvolgente, e mi domando se non possa essere la spia di una sottocultura sommersa che si fa strada in certe frange più emarginate e “povere” della popolazione, soprattutto di quella molto giovane. In una qualche periferia di Roma il volto di Anna Frank può diventare un insulto. La vittima che torna a essere ultima, emblema di umiliazione, oggetto di disprezzo. C’è di che interrogarsi. L’episodio va annoverato in quella antica ricerca del capro espiatorio che secondo la sociologia permea costantemente le società impoverite e in crisi? Da millenni gli ebrei sono fra i primi a essere bersaglio di queste pulsioni: l’uso dell’icona di Anna Frank non sarebbe dunque altro che una spia che si accende, e conferma che il vecchio seme dell’antisemitismo non è mai morto. O forse, come sostiene il lettore, in realtà già sui campetti delle squadre di calcio infantili si scarica spesso una violenza che non ha alcun nesso apparente con quelle partite fra bambini. Una violenza da frustrazione, solitudine, sofferenze familiari, affanni economici si riversa su quei campetti, e viene assorbita e metabolizzata da qualcuno di quei ragazzi. Il tiro al “diverso”, ebreo o altro che sia, è il passo successivo. Tuttavia mi chiedo come, a fronte di tanto lavoro che si fa nelle scuole sull’Olocausto, e della condanna unanime di istituzioni e società che si leva di fronte a casi come quello di Roma, quel germe possa ancora riaffacciarsi in ragazzi di sedici o diciotto anni. Mi chiedo se nel passaggio delle generazioni qualcosa non sia venuto a mancare, nella narrazione della tragedia della Shoah. Non le parole, che anzi sono state tante, ma il senso più autentico di ciò che accadde: la persecuzione, la caccia all’uomo, l’accanimento feroce, il disegno scientifico di sterminio. Nonostante centinaia di libri e di film sull’argomento, ancora succede che qualcosa, nella trasmissione ai figli, si inceppi. Forse perché anche le più giuste e belle parole corrono il rischio di farsi retorica, se restano astratte? Ciò che rende efficace questo tipo di comunicazione, credo, è la capacità di suscitare in chi ascolta immedesimazione: rendergli possibile mettersi nei panni della vittima, del perseguitato. Chi ha stampato l’immagine di Anna Frank forse sapeva chi era quella bambina, ma non si è immedesimato nei suoi tredici o quattordici anni murati in un alloggio clandestino, rigorosamente in silenzio, senza nemmeno lo spazio per muoversi, o una finestra cui affacciarsi: come una farfalla in gabbia era Anna, e prima ancora della irruzione delle SS, della prigionia, della fine per stenti e malattia a Bergen-Belsen. Anna Frank era una, bisognerebbe dire a quei ragazzi di Roma, come le vostre sorelle, con gli occhi curiosi e le gambe lunghe, in quell’età in cui si è ansiose di diventare donne. E questa sua adolescenza fu costretta, soffocata, sequestrata, uccisa. Voleva diventare grande Anna, e fare la scrittrice. La scure dell’Olocausto si è abbattuta sulla sua infantile, tenace speranza di ragazzina. Perché questo, bisognerebbe dire a quei giovani tifosi, era Anna, come una vostra piccola sorella, come una spiga di grano mietuta dalla falce dell’odio, nel fiore degli anni. L’odio contro il quale padre Massimiliano Kolbe è insorto, con il suo sacrificio, come un titano. L’odio di cui la giovane ebrea Etty Hillesum scriveva: in realtà, bisognerebbe cominciare a combattere ciò che rinfacciamo agli altri dentro noi stessi. Avendo memoria, usando onestà, coltivando umanità, riconoscendo male e bene. © RIPRODUZIONE RISERVATA Le nostre voci