(Ansa)
Di nessuno, ma aperte a tutti. Senza proprietari prestabiliti, ma spesso sfruttabili da chi vuole e può. È ancor oggi lo status di buona parte delle risorse economiche marine, nella scia della tradizione che le considera res nullius. Un vecchio scenario messo sempre più alla prova da tensioni geoeconomiche anche incandescenti. Sui sette mari, prosegue la gara fra potenze, come Cina, Russia e Francia, per tentare di 'privatizzare' nuove distese blu con ogni espediente, in particolare estendendo le zone economiche esclusive grazie a prospezioni più accurate dei fondali a ridosso della cosiddetta 'piattaforma continentale'. Talora, persino mediante isole sabbiose artificiali o quasi, come nel Mar Cinese Orientale al centro di aspre dispute territoriali.
Laddove è invece impossibile rivendicare simili diritti disciplinati dalla Convenzione di Montego Bay, ovvero nell’alto mare, il futuro delle ricchezze oceaniche è al centro di giochi diplomatici ancor più sottili, sospesi fra interessi nazionali e vedute di più ampio respiro anche all’insegna della sostenibilità ecologica.
Nel caso delle risorse ittiche, le piste per preservare gli stock e alleviare i conflitti non sono più un mistero, ci assicura il naturalista Ferdinando Boero, alla guida a Napoli della Fondazione Dohrn per una cultura del mare, citando il caso del Mediterraneo: «Esiste nel mare una grande opportunità di benessere, se capiremo una volta per tutte che occorre cambiare strada rispetto al passato. Sappiamo ormai che nelle aree marine protette, gli stock di pesce si ricostituiscono in 5 anni. Occorrerebbe creare dunque nel Mediterraneo delle reti di queste aree marine e utilizzare queste risorse a rotazione, usando dunque il territorio marino in modo più saggio, senza pescare pesci di 5 cm, ma attendendo che crescano fino a mezzo metro ». Purtroppo, ancora uno scenario lontano: «Continuiamo a scontare il tragico paradosso dei beni comuni. Se non lo prendo io, lo prendi tu, allora cerco di prenderlo prima di te. Per questo, urgono regole per disegnare un nuovo modo d’impiegare lo spazio marino mediterraneo, pianificandolo anche con gli Stati non europei. Dobbiamo assolutamente imparare a pensare a ciò che accadrà fra venti, trenta e cinquant’anni».
Gli scenari restano incerti, sottolinea pure la biologa britannica Sheila Heymans, alla guida dell’European Marine Board: «Le flotte di pesca sono oggi meglio gestite, specialmente nell’Atlantico, dove siamo in grado di monitorare un volume maggiore di stock di pesce. Tuttavia, sappiamo che ogni elemento di un ecosistema marino ha la sua importanza per la sostenibilità dell’insieme. Comprendere il 10% di un ecosistema non basta di certo per ottenere previsioni sicure. In proposito, nello stesso Atlantico, tante specie significative non vengono monitorate. Nel Mediterraneo, la situazione è oggi ancor più difficile, già a livello politico, oltre che per aspetti fisici e biologici specifici, come le nuove specie invasive provenienti da altre aree». Gli Stati Uniti sono spesso citati per i progressi compiuti verso una pesca sostenibile, su uno sfondo in cui le pratiche più distruttrici permangono soprattutto nell’emisfero australe. Instilla speranza inoltre il salvataggio di certe specie commerciali emblematiche, come il tonno rosso, ci spiega il francese Patrick Lehodey, specialista degli ecosistemi marini per il gruppo parauniversitario Cls, che modellizza le risorse naturali grazie ai satelliti: «Nel Mediterraneo, è una delle rare specie per le quali abbiamo un monitoraggio di lungo corso. Dopo una grossa crisi di sovrasfruttamento, le Ong sono riuscite a far pressione sugli Stati membri della commissione tonniera, con conseguenti forti restrizioni delle quote consentite. Gli stock si stanno ricostituendo ed aumentano ormai pure le quote offerte ai pescatori. Ma per altre specie significative, come il pesce spada, i dati mancano, rendendo proibitiva una gestione responsabile».
DOSSIER IL FUTURO DEI MARI di Daniele Zappalà
Settore tradizionale per eccellenza, la pesca è sempre più affiancata da altre nuove frontiere dell’economia marina. Accanto al comparto energetico, crescono pure le mire sulle risorse genetiche e su quelle geologiche sottomarine, da qualche anno al centro di nuove tensioni geopolitiche. «Nel caso delle risorse biologiche, a differenza di quelle minerarie, esistono grandi lacune da un punto di vista legale. Si sta cercando di correggerle, ma intanto si nota un appetito economico crescente, non sempre in un’ottica sostenibile», ci spiega Salvatore Aricò, della Commissione oceanografica intergovernativa, presso l’Unesco, aggiungendo: «L’anno scorso, il Kenya ha ospitato un’importante conferenza internazionale sull’economia marina sostenibile. L’idea guida è di dotare di una base scientifica l’accesso a queste nuove risorse, in modo da evitare una corsa al nuovo oro blu. Ma per il momento, non è stato fugato il rischio che una sorta di coperta demagogica mascheri forme di sfruttamento non responsabili e di corto respiro».
In campo geologico, a costi decrescenti, certi gruppi internazionali sono ormai capaci d’estrarre risorse fino a 3mila o 4mila metri sotto fondali profondi già 6mila metri. Un’evoluzione tecnologica che, al di là dei tradizionali settori petrolifero e metanifero, rilancia pure la corsa a molti metalli divenuti col tempo più rari sulle terre emerse, come tallio, cobalto, manganese, oro, platino, rame, nichel, spesso impiegati nelle tecnologie di punta.
L’anno scorso, hanno suscitato clamore nuove stime sui giacimenti scoperti al largo dell’atollo giapponese di Minami Torishima, circa 2mila km a sud-est di Tokyo. Inoltre, secondo un rapporto del Cnrs francese, la sola zona di Clarion-Clipperton (fra il Messico e le Hawaii), equivalente a circa il 15% del Pacifico, conterrebbe 34 miliardi di tonnellate di noduli polimetallici, con depositi di tallio 6mila volte superiori a quelli stimati sulla terraferma. Alla luce del succedersi di scoperte, s’invoca da più parti la finalizzazione di uno specifico «codice minerario dei fondi marini», anche per evitare devastazioni ambientali irreparabili e conflitti crescenti.
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Ma quando tutte queste potenzialità economiche sono considerate dal punto di vista dei popoli oceanici che vivono da sempre all’unisono con le distese blu, ogni considerazione viene spesso ricoperta dai gridi d’allarme sugli effetti già devastanti del cambiamento climatico. «L’Oceano Pacifico è l’aia da cui ricaviamo il cibo e le risorse per tessere gli abiti e i nostri tappeti ornamentali», ci ricorda Uili Lousi, artista delle Tonga all’origine dell’ong Ohai incorporated, prima di testimoniare sull’odierna fragilità di questi equilibri ancestrali, anche a causa dell’intensificarsi senza precedenti di cicloni estremi con venti anche superiori ai 380 km orari: «Questi cicloni hanno spazzato le nostre isole, distruggendo tutto sul loro passaggio. Le nostre infrastrutture sono state investite e sbriciolate, i nostri campi devastati, le nostre falde acquifere contaminate, i nostri servizi sanitari riempiti di feriti, l’elettricità e le comunicazioni compromesse, la nostra gente sprofondata nella morte e distruzione».
Di fronte a testimonianze simili, lo sfruttamento degli oceani sembra giunto ancor più a un bivio. I polmoni potenti dell’economia marina potrebbero in teoria sospingere l’umanità verso un avvenire di crescente benessere condiviso. Ma lo stesso bacino d’opportunità serba pure insidie pronte a scatenarsi con effetti distruttivi difficilmente prevedibili. Di certo, un’ulteriore ragione pressante per non relegare mai più mari e oceani nel dimenticatoio delle politiche nazionali.