mercoledì 16 dicembre 2020
Cristiani, musulmani, dalit o adivasi: il nazionalismo induista non smette di colpire gli altri gruppi etnici o religiosi. La difficile sfida di accettare la modernità
Minoranze discriminate, il male che l'India non cura

Ansa

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È stato un altro anno problematico per l’India e non solo per la pandemia devastante che ha causato 10 milioni di casi di contagio e 145mila decessi nel secondo Paese più popoloso al mondo, frenando bruscamente la sua corsa al benessere. «Questa nazione, questa India che tutti conosciamo e amiamo, così antica eppure così giovane, così traboccante di speranza e vibrante di possibilità è da lungo tempo pronta al cambiamento, anche se gli indiani ovunque vivano si chiedono: che cosa vogliamo diventare? Una repubblica democratica socialista laica o un hindu rashtra (nazione indù) feudale?». Queste domande sono state poste dal gesuita Myron Pereira, giornalista e analista indiano, in un’analisi per l’agenzia UcaNews.

Sono quesiti che interrogano da tempo il suo grande Paese, ma mai come quest’anno – il sesto sotto una guida nazionalista che continua a macinare successi elettorali – l’immensa popolazione indiana si è trovata davanti ai suoi problemi irrisolti e a nuove sfide. Soprattutto alle sue contraddizioni, che si approfondiscono almeno quanto il divario della ricchezza. Non senza reazioni da parte dei gruppi più sfavoriti per storia, cultura o possibilità. I dalit (gli 'oppressi') cercano un proprio ruolo, chiedono un riconoscimento da parte dei gruppi che per millenni li hanno segregati e sfruttati manipolando a loro favore la tradizione induista. Allo stesso modo gli adivasi (aborigeni e tribali) resistono come possibile alla pressione sulle terre ancestrali con i loro campi, pascoli, miniere e luoghi di culto. Il movimento #MeToo è stato abbracciato con convinzione da tante donne dell’India, stanche di nuove e vecchie forme di oppressione e tanti indiani non solo approfittano delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione, ma recepiscono quanto del mondo esterno viene importato, mediato anche da milioni di emigranti. L’India sta cambiando, come dimostrano l’allentamento dei tradizionali vincoli familiari e un maggior numero di matrimoni intercastali e interreligiosi fondamentali per sostenere l’integrazione.

Una conferma dell’affermarsi degli 'indiani che lottano', immagine che per l’economista Premio Nobel Amartya Sen è più 'vera' di quella tradizionale di una popolazione bloccata nelle sue tradizioni socio-religiose accolte senza opposizione. Storicamente evolutiva e assimilatrice, una società considerata statica e a volte inerte è sembrata in anni recenti acquistare dinamicità, ponendosi con una nuova visione e un nuovo orgoglio a confronto con le potenze globali alle quali ha lanciato la sfida forte del suo peso demografico e morale, di potenzialità e risorse. In questo sostenuta anche dallo sviluppo tecnologico che ha accompagnato e non contrastato la ripresa del nazionalismo, del settarismo religioso e della discriminazione. Per questo, a 73 anni dalla sua nascita, lo Stato indiano ha davanti la sfida di tutto rispetto di riconoscere le sue contraddizioni e operare affinché diventino opportunità condivise. La difficoltà iniziale è di farlo all’interno di un quadro socio-religioso sostenuto dal governo attuale che considera le discriminazioni un fatto strutturale, implicito nella tradizione. Ignorando, pur attingendovi abbondantemente in occasioni elettorali, che almeno all’interno della vasta classe media indifferenziata per censo, educazione e possibilità, le discriminazioni tradizionali sono nei fatti superate.

Portare in tempi brevi la società indiana a un pari livello di benessere e coscienza la renderebbe più uguale, però meno influenzabile da ideologie a base religiosa che i nazionalisti hanno cavalcato per affermarsi. Uno snodo, questo, essenziale, che il premier Narendra Modi cerca di aggirare, evidenziando più che le contraddizioni dell’ideologia di cui è portavoce, i rischi per l’unità e la sovranità nazionale opportunamente individuati e proposti. Lo scorso 5 agosto l’India ufficiale ha festeggiato il primo anniversario dell’approvazione da parte del parlamento dell’annessione del Kashmir come nuovo stato, privandolo della sostanziale autonomia finora goduta e ricevendo la condanna dei confinanti Pakistan e Cina che pure rivendicano tutta o in parte la regione. Una mossa unilaterale che ha provocato proteste da parte della popolazione musulmana maggioritaria e l’imposizione dello stato d’emergenza in un’area già 'esplosiva' dopo decenni di rivolte e repressione.

Lo stesso giorno, nella città di Ayodhya, il primo ministro Modi posava la prima pietra del nuovo tempio dedicato al dio Rama sul luogo dove fino al 1991 sorgeva una moschea dalla storia contrastata ma centrale all’identità dell’islam nel Subcontinente indiano di cui è erede il 15 per cento dei 1,35 miliardi di abitanti dell’India. Una distruzione che voleva mettere fine a una contesa storica dal punto di vista dei nazionalisti, ma che avviò violenze tra indù e musulmani che fecero migliaia di vittime e fino a oggi hanno intossicato i rapporti tra le due comunità. Due eventi concomitanti – non a caso, probabilmente – individuabili come l’avvio della fase finale di imposizione del suprematismo induista sul Paese: il primo perché recupera all’India aree territoriali oggi strategiche e storicamente contrastate, il secondo perché ne conferma l’esclusiva identità indù. Eventi che però aprono nuovi e problematici scenari per la laicità e l’uguaglianza sancite dalla Costituzione e per le minoranze, oltre che sul piano dei rapporti internazionali.

Sempre ad agosto, un mese dunque cruciale per la somma di questioni evidenziate, la comunità cristiana dell’India ha ricordato l’avvio della persecuzione nata nel distretto di Kandhamal in Orissa ma che aprì in tutto il Paese una nuova, difficile fase della convivenza tra indù e la minoranza di battezzati. Una memoria che si alimenta ancora oggi di minacce e discriminazioni. Episodi di selettività nella distribuzione degli aiuti segnalati durante il lockdown dovuto al Covid- 19 sono la conferma più che l’eccezione di una situazione di costante pressione per l’abiura o la riconversione all’induismo nei confronti di musulmani e cristiani. La denuncia arriva dall’organizzazione Porte Aperte/Open Doors, che riporta come in India siano stati 223 gli episodi persecutori contro i cristiani nei primi mesi del 2020. «Si va da interruzioni di servizi religiosi a pestaggi e abusi sessuali contro individui perché appartenenti alla fede cristiana. Tanti altri non vengono denunciati per paura che le vittime soffrano rappresaglie dai loro aggressori», ricorda Porte Aperte.

Il rapporto pubblicato nel 2019 dalla stessa organizzazione e intitolato Impact India - We’re Indians Too, aveva già confermato come dal ritorno al potere del filo-induista Bharatiya Janata Party (Bjp) nel maggio 2014, siano aumentati in maniera significativa gli attacchi e le violazioni di diritti umani contro le minoranze religiose, in particolare negli otto Stati dell’India che hanno adottato leggi per «assicurare la protezione dalle conversioni forzate», mentre altri le hanno previste. «L’adozione di tali leggi, soprattutto in stati dove le minoranze religiose già soffrono per accuse infondate di conversioni illegali – ricorda ancora Porte Aperte/Open Doors – legalizzerebbe però gli abusi e le violenze contro cristiani e musulmani e incoraggerebbe gruppi estremisti a continuare a danneggiare l’armonia e la convivenza dei diversi gruppi religiosi».

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