Gentile direttore,io, nella mia inesperienza politica o nella mia “ingenuità” di persona anziana, potrei anche sbagliarmi, ma da madre e da nonna che sente molto l’attuale disagio giovanile, ho spesso pensato in questi ultimi tempi a una “ricetta” per ovviare al problema della disoccupazione (che nessun politico è riuscito finora a risolvere). Mi sono convinta che, poiché viviamo in un mondo in cui il lavoro si è fatto un po’ troppo tecnologico e automatizzato (mi perdoni i termini forse poco idonei) e che pertanto richiede sempre meno l’intervento diretto dell’uomo – non potrebbe essere una buona (se non l’unica) soluzione ovviare alla sempre maggior carenza di lavoro riducendo per tutti l’orario di lavoro? Cioè con quella ricetta che dice “Lavorare di meno, ma lavorare tutti”? Fra l’altro si avrebbe anche il vantaggio sociale di maggior tempo libero per sé e per la famiglia (che oggi ne avrebbe veramente bisogno!). La saluto cordialmente.
Clelia ProzzilloHo preso in mano la sua lettera un paio di volte nelle ultime settimane, cara e gentile signora Clelia. Le cronache, in quei giorni, proponevano passaggi cruciali per la definizione e l’approvazione del cosiddetto Jobs Act e si moltiplicavano sia i commenti degli specialisti, sia gli applausi dei sostenitori, sia le proteste dei detrattori della svolta nella regolazione del lavoro nel nostro Paese. Un cambiamento che, oggi, il premier Matteo Renzi definisce una «rivoluzione copernicana» che darà più occupazione a tutti, i suoi alleati del Nuovo centro destra una riforma infine troppo timida, i suoi avversari politici e sindacali una devastazione del sistema di garanzie per i lavoratori dipendenti strutturato in Italia negli ultimi trent’anni del Novecento. Troppe interpretazioni per una legge sola… Ma in questo Paese ci siamo abituati, e non ce ne stupiamo più di tanto. Anche perché torti e ragioni in un campo di così grande importanza verranno attribuiti presto, con la inesorabile eloquenza dei fatti: se non ci saranno più lavoro e meno precarietà, si dimostrerà che Renzi ha preso la via sbagliata che gli rinfacciano soprattutto la Cgil e un pezzo del suo stesso Pd, ma se comincerà davvero la bonifica della palude del non lavoro (o del lavoro dequalificato) che inghiotte fiducia e progetti di tanti, giovani e meno giovani, allora si avrà la prova del contrario e del fatto che certe “guerre di trincea” sono più che mai senza senso. Io penso da tempo che cambiare si debba, e con lo sguardo più che mai lucidamente rivolto al futuro. Per questo sono personalmente convinto che sia molto utile, gentile amica, la sua semplice (ma per nulla ingenua) “ricetta”. Penso, cioè, che bisogna decidersi a riprendere in considerazione, cominciando a declinarla con tenacia ed efficacia, l’idea condensata nello slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Una idea vecchia (la lanciarono con coraggio i metalmeccanici della Cisl, nel 1978) e assai attuale. Proprio perché il perfezionarsi delle macchine che inventiamo e che ci accompagnano nella nostra vita non distrugga lo spazio delle persone. C’è da evitare che si consolidi e dilaghi ciò che stiamo già sperimentando: la disumanizzazione del lavoro, che ci riduce da dignitosi protagonisti a quasi superflui comparse in una società dove conta solo la “produzione” di merci. C’è da educare moralmente e da agire politicamente perché, al contrario, questo inesorabile processo di trasferimento di “fatica” e di “routine” dagli essere umani alle macchine liberi buona parte del nostro tempo da occupazioni noiose e ripetitive, ci restituisca ad attività che valorizzano la nostra intelligenza e creatività, preservi la nostra manualità soprattutto nel rapporto sano con la natura ed esalti l’innata inclinazione al bello, rendendo più facile una ricca vita di relazioni, dando il giusto spazio nella giornata di donne e uomini (e dunque non solo o non prevalentemente delle donne) al lavoro “di cura” dei familiari e del prossimo. Una prospettiva dalla quale anch’io, come lei e come tanti altri, sono provocato e attratto e che è stata al centro di un coinvolgente dialogo tra l’economista Luigino Bruni e la filosofa politica Jennifer Nedelsky che abbiamo proposto sulle nostre pagine lo scorso 4 ottobre. Certo, so bene – perché lo vivo ogni giorno, da giornalista – che non tutti i lavori e non tutti i ruoli all’interno di un’attività lavorativa sono ugualmente “liberabili” e che, anzi, diverse nuove tecnologie minacciano di “imprigionare” ancor più colui/colei che lavora e di tenere ai margini colui/colei che è fuori dal cerchio magico (e ferreo) della sempre minore occupazione garantita. Per questo ci serve una politica dallo sguardo lungo e profondo, una politica che s’impegni a servire davvero la libertà e le relazioni forti delle persone. La vera libertà non fa rima, in nessun modo, con precarietà.