Dolore e vergogna, la schiavitù è dentro la storia, è essa stessa storia umana, dolore di servi e vergogna di padroni. Oggi che la coscienza dei diritti esalta la libertà («Tutti gli uomini nascono liberi» sono le prime parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), e che l’esecrazione per i crimini contro la persona umana è passione comune, la memoria di quel dolore e di quella vergogna che ha sporcato la storia parrebbe archiviata e sepolta. Non è così. Far schiavo un uomo è dominio, cioè violenza e possesso.
La violenza è nei ceppi, nelle catene, nei tormenti; in antico fu sorte per i popoli vinti, nell’età moderna della colonizzazione fu stermino di libertà per i popoli originari delle terre conquistate, fu razzia e tratta di 'negri' verso le Americhe. Il possesso fa dell’uomo schiavizzato una cosa che si compra e si vende, un’utile bestia da soma e bastone, una macchina animata. Persino la legge, in antico, ne conobbe il regime, inventando il mercato del corpo del debitore insolvente. E la pur grande civiltà di Roma ebbe una società schiavista, e neppure la sapienza greca la rinnegò per sé. E la storia dell’Occidente, stratificata lungo i secoli travagliati e operosi del progresso culturale, che nel prender coscienza dell’aberrazione della schiavitù la malediceva, ha lasciato perdurare un mercato di schiavi multiforme, con diverse strategie e con identica crudeltà. Poi sono venuti i trattati, le convenzioni, le Carte internazionali.
A Ginevra, nel 1926, gli Stati proposero testualmente «l’abolizione della schiavitù». L’Onu, nel 1949 approvò in Assemblea generale «la soppressione del traffico di persone». A Roma, poco dopo, veniva approvata la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cedu, 1950) che all’art. 4 proibiva la schiavitù e il lavoro forzato. Seguiva, da parte dell’Onu, una Convenzione supplementare sulla «abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi, e sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù» (1956). E la rassegna potrebbe continuare, e dire la lotta contro la tratta di esseri umani (in particolare i minori, e le donne forzate alla prostituzione) promessa e firmata. Ma alla fine della lettura dei testi così virtuosi viene un pensiero inquieto: che, se sono così ripetuti, forse la schiavitù non è scomparsa.
L’associazione Terre des hommes ha stimato che ci sono 12 milioni di persone schiavizzate nel mondo; l’Ong Slavery Footprint, parla di 27 milioni. Immaginiamoci vittime, per qualche istante, fra questi milioni. Milioni. Invochiamo la Convenzione di Varsavia (2005) approvata dal Consiglio d’Europa, che chiede agli Stati di proteggere le vittime. Spesso sono migranti in fuga da guerre, miseria, disperazione. Schiavitù sconfitta? È di questi giorni, e su queste pagine si torna a darne cono, la notizia solida e tristemente particolareggiata, raccolta dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che in Libia i giovani africani che arrivano sin lì per tentare di raggiungere l’Europa, vengono presi e venduti, mutati in ostaggi per ottenere riscatti, a volte torturati e abusati, lasciati morire o uccisi.
I patti che l’Italia fa con la Libia non possono ignorare questi orrori. Queste bande di predatori vanno neutralizzate, e il modo di dare scampo alle vittime, se infine cominciamo a capirlo, è ormai solo quello di soppiantare l’oscena offerta dei moderni negrieri con provvidenze nostre, secondo i propositi delle molte 'Carte'. Bisogna apprestare dei luoghi protetti di accoglienza, al riparo dalla ferocia: luoghi per esseri umani, non per schiavi. Chiudere gli spazi dei mercanti di uomini e donne e bambini, e aprire 'corridoi umanitari'. Riportare finalmente sotto la luce della legalità internazionale ciò che è stato lasciato, o ricacciato, nell’ombra dell’illegalità e dello sfruttamento. Dolore e vergogna devono finire.
© Riproduzione riservata