La vera sete di Roma e dell'Italia
domenica 30 luglio 2017

La crisi idrica romana, con le fontane chiuse e i celeberrimi nasoni a secco, mi fa tornare in mente i bambini che vendevano acqua in certi recipienti di plastica dei mercati africani. Qualche anno fa a Banjul, la capitale del Gambia, le buste costavano pochi dalasi e noi, visto il caldo opprimente che faceva, ce le scolavamo come se fosse una bevanda speciale. Una volta ho seguito con gli occhi uno di questi piccoli venditori per scoprire dove andasse quando la merce si esauriva. Consegnava i soldi a una donna seduta in mezzo alla più varia mercanzia la quale, dopo averli intascati, subito provvedeva a rifornire di altri contenitori il frugoletto che immediatamente ripartiva in mezzo alla folla indaffarata. Ecco, forse dovremmo riflettere sulle lezioni come queste che il passato e il presente non smettono di impartirci talvolta in forme paradossali: proprio là dove storicamente gli esseri umani hanno imparato a sfruttare al meglio il bene primario che la pioggia, il mare, i laghi, i fiumi e i ruscelli ci hanno da sempre dispensato, cioè sulle rive del Tevere, nel punto esatto in cui vennero concepiti gli acquedotti e le terme, che nei secoli non tardarono a diffondersi in ogni parte d’Europa e dell’area mediterranea, oggi, in un mondo ipertecnologizzato che ci promette la realizzazione immediata di qualsiasi desiderio, una semplice penuria idrica estiva rischia di mandare in tilt, prima ancora che gli approvvigionamenti dell’Urbe imperitura, il nostro equilibrio emotivo.

Ci siamo forse dimenticati gli avvertimenti che tutte le civiltà hanno tramandato riguardo a uno dei beni più preziosi di cui disponiamo in quantità non illimitata? Nelle zone povere del pianeta tale smemoratezza sarebbe inconcepibile. Il timore di un possibile razionamento, per ora scongiurato, con le responsabilità amministrative che come al solito vengono rimpallate da una parte all’altra delle istituzioni, sembra accendere la spia rossa di un allarme più profondo, legato alla consapevolezza di un mancato controllo nei confronti della natura, nel medesimo modo in cui avvenne nei giorni tristi del terremoto. Ancora una volta ci accorgiamo di quanto fragile possa essere il nostro sistema sociale: se basta una siccità a mandarlo in crisi significa che abbiamo sempre pensato a organizzare la vita del giorno dopo, senza curarci di quello che sarebbe potuto accadere in futuro. Lasciando agli specialisti i discorsi tecnici sugli sprechi dell’acqua e sulla sua gestione pubblica o privata, basterebbe ripetere l’antico adagio popolare, relativo alla stalla che viene chiusa quando i buoi sono già scappati.

Avremmo dovuto prevedere quello che accade oggi intervenendo in tempo utile per tamponare le falle, dirigere i flussi, fare scorte adeguate, alla medesima maniera per cui le costruzioni antisismiche andavano edificate prima che la catastrofe geologica distruggesse quelle vecchie. Che i rifornimenti d’acqua non possano essere considerati scontati, ma debbano venire gestiti con lungimiranza ed avvedutezza mediante modifiche strutturali degli impianti, tutti lo sapevano e, a rigor di logica, non ci sarebbe stato bisogno di attendere una delle stagioni meno piovose degli ultimi tempi per vederlo confermato. Semmai in questo momento, quando la frittata è già fatta, dovremmo evitare di cadere in un altro rischio: quello di strumentalizzare in senso politico l’azione operativa, pensando, non tanto alla soluzione da praticare per superare l’emergenza, quanto al consenso popolare che se ne potrebbe trarre e all’immagine conseguente. Il lago di Bracciano, ad esempio, è stato più volte tirato in ballo: prima per evitare che si prosciugasse, poi negando la sua centralità rispetto ai consumi romani. Per far scoppiare la bolla d’indecisione che i cittadini della Capitale stanno vivendo adesso insieme ai tanti inquieti turisti che vorrebbero visitarla, più delle chiacchiere e delle dichiarazioni, urgono azioni concrete: le uniche di cui finora abbiamo sentito davvero la mancanza.

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