Caro direttore,
desidero innanzitutto ringraziarla per la pubblicazione dell’articolo «L’Italia per noi è "madre di cuore» di Asmae Dachan e vorrei pregarla di far giungere all’Autrice i miei sentimenti più sinceri di riconoscenza per quello che scrive, di piena solidarietà e di stima. In particolare, vorrei farle sapere che mi sento onorato di averla come connazionale e che mi piacerebbe con lei onorare il tricolore e, magari, cantare l’inno nazionale (se me lo consentisse un certo nodo alla gola che mi sale dopo le prime note). Dico questo perché ho il "privilegio" di essere italiano tre volte.
Per nascita: Zara 1933. Per sangue: tutti gli avi dalmati italiani (documentato almeno dal 1750!). Per "opzione": a causa del trattato di pace dell’ultima guerra, dopo aver perduto tutto, per voler rimanere italiani abbiamo dovuto richiedere alla Jugoslavia il formale riconoscimento della nostra italianità. Cosa che ovviamente non poteva esserci negata. Però... alla visita di leva, dopo una lunga attesa – che mi aveva fatto temere chissà quale malattia – un ufficiale medico con espressione un po’ confusa mi disse: «Abile, ma non arruolato perché... apolide». Cioè cittadino di nessun Paese. Non l’aggredii per rispetto della divisa. Poi, seppi che, per negligenza della burocrazia, non era arrivata alla Commissione di leva la dichiarazione del riconoscimento di italianità da parte jugoslava. Forse è per tutto questo che quel nodo continua a ritornare in gola. Ricordo, senza ombra di vergogna, che la prima sera in caserma, al corso Allievi ufficiali di complemento alla scuola di Ascoli, ancora in borghese, all’ammaina Bandiera, al suono dell’Inno nazionale mi sono sciolto in lacrime. Forse i miei commilitoni avranno pensato che si trattasse di nostalgia per la mamma o per la morosa.
Preciso che non sono un nazionalista sfegatato, guerrafondaio: alla prima lezione di arte militare, nella quale il docente si era permesso di concludere, citando von Clausewitz, che la guerra era la logica conseguenza della fine del negoziato, mi permisi di ricordare quello che dice la nostra Costituzione (art.11). Ne nacque un accesissimo dibattito nel quale fui accusato, da alcuni colleghi, di scarso senso della Patria... Non ebbi difficoltà a metterli a tacere, raccontando semplicemente le mie origini. Il suono liberante della campanella consentì all’ufficiale di rinviare la discussione alla prossima lezione. Cosa che ovviamente non avvenne, e io mi son sentito assolto anche da don Milani. Grazie per l’attenzione e per tutto il bene che fa, con "Avvenire" e oltre.
Giorgio Vallery, dalmata italiano
Caro signor Giorgio,
come vede, la nostra amica e collaboratrice Asmae Dachan leggerà direttamente le sue dense e forti parole di condivisione e di solidarietà. Sono felice di fare da tramite e scelgo con convinzione di farlo pubblicamente. Lei può aiutare non poca gente, che magari si riempie la bocca con la bellissima parola "patria" senza capirla davvero, a intendere che cosa significa appartenere a una storia viva come quella di cui noi italiani siamo partecipi e che da secoli si fonda su di un’identità chiara e su un’aperta e generosa condivisione.
Mi creda: la sua lettera «da italiano tre volte» ha commosso anche me, sino al nodo in gola. Non ho la sua esperienza e la sua saggezza, e non ho dovuto – grazie a Dio – vivere le prove che sono toccate a lei, ma ho i suoi stessi sentimenti verso il mio Paese, mi impegno per dare ragione di una combattiva speranza che somiglia alla sua, e nutro al suo pari una mai cieca fiducia nel bene di cui l’umanità, nonostante errori e orrori, è capace.
E vedo, caro amico, che siamo accomunati dalla volontà di cercare, incontrare e continuare a riconoscere, da cittadini e da cristiani, persone diverse da noi, ma che con noi condividono l’essenziale. Su questo diritto, su questa cultura si fonda la giusta idea di "cittadinanza" per questo tempo e per quello che abbiamo davanti. Grazie ancora, grazie davvero.
Marco Tarquinio