Domenica scorsa, durante la trasmissione pomeridiana di RaiUno, Severino Antinori avrà sorpreso molti sostenitori dell’idea che l’Italia sia un Paese da cui fuggire per fare all’estero ciò che la legge 40 sulla fecondazione assistita vieta. Infatti il ginecologo ha dichiarato che si possono far nascere più bambini rispettando questa norma, e ha pure affermato che gli stranieri adesso vengono in Italia perché noi, meglio di altri, siamo capaci di gestire le tecniche di fecondazione artificiale. La dichiarazione ha avuto un seguito ancora più interessante. Antinori ha infatti ammesso con sincerità che ha dovuto «fare di necessità virtù». Dove la necessità è costituita da una legge che tutela l’embrione. Questo tipo di norme lo ha infatti spinto a usare due tecniche che si sono rivelate molto valide e hanno migliorato il tasso di successi. La prima è la vitrificazione degli ovuli femminili, che è una particolare tecnica di congelamento con la quale si possono prelevare gli ovuli prodotti con la stimolazione ovarica, conservarli e usarli uno per uno secondo necessità, senza maneggiare embrioni. La seconda tecnica è il miglioramento dell’ « Icsi » , metodica assai diffusa, con l’analisi degli spermatozoi in modo da prelevarne uno particolarmente valido, e poi inserirlo nell’ovulo per mezzo di una microiniezione. Si tratta di tecniche note anche prima dell’entrata in vigore della legge 40. Oggi Antinori le usa, con la competenza che gli viene riconosciuta. Ma ci si può chiedere perché afferma che ha fatto « di necessità virtù » ? Non sarebbe più esatto dire che osservando le norme giuridiche ( e i fondamentali stimoli etici) presenti nella legge si possono ottenere risultati migliori rispetto alla situazione precedente? La richiesta da parte dell’etica di rispettare gli embrioni e, più in generale, di porre sempre la ricerca scientifica al servizio non solo dell’umanità ma anche di ogni singola persona non deve essere vista come limitante per la ricerca stessa. Innanzitutto perché una ricerca che violasse la dignità anche di un solo essere umano sarebbe per se stessa immorale e farebbe perdere il senso dell’impresa scientifica, che deve porsi al servizio di ogni uomo senza discriminazioni. In secondo luogo, l’esclusione di alcune vie di ricerca non sono la fine tout court della ricerca, anzi, costituiscono l’impulso a darle nuovi sbocchi. Chiara dimostrazione di quanto diciamo è la recente scoperta della possibilità di riprogrammare le cellule adulte per riportarle a uno stato di ' quasi totipotenza' simile a quello delle cellule embrionali. In tal modo si possono usare le cellule riprogrammate per studiare possibili terapie con maggiori probabilità di successo, dato che non presentano le problematiche tecniche poste dalle staminali embrionali ( incapacità di orientarle verso l’evoluzione desiderata, rischio di proliferazioni tumorali...). È nota la rinuncia di Ian Wilmut ( il ' padre' della pecora Dolly) a operare con le staminali embrionali, proprio perché riconosciute meno valide. Ma questa logica che gerarchizza correttamente i valori, mettendo al primo posto il rispetto per l’uomo, fa fatica a essere accolta. Ancora recentemente Umberto Veronesi ha sostenuto che le speranze della ricerca sono poste proprio nell’uso degli embrioni. Eppure dovrebbe ben conoscere i progressi di cui parliamo. E poi le speranze di chi? Dei malati, dei ricercatori corretti o di coloro che mirano a ingegnerizzare e brevettare le staminali embrionali con lo scopo di lauti guadagni? Per fortuna le nuove scoperte hanno appannato molto le speranze di questi ultimi. Sarebbe però un bel giorno quello in cui la comunità scientifica cessasse, per libera convinzione, di sottrarsi alla necessaria verifica etica del suo operato e abbandonasse posizioni ideologiche contrarie alla verità sull’uomo.