Gentile direttore,
seguiamo sempre con piacere e attenzione lo spazio che “Avvenire” dedica al tema delle adozioni. Avevamo già pensato di scriverle nelle settimane scorse, dopo il sì della Corte costituzionale all’eterologa. La ancora recente decisione del Tribunale di Roma di aprire di fatto la strada alle coppie gay ha fatto scattare un’ulteriore molla. E così la voce che lei e i suoi colleghi avete dato ancora una volta data alle associazioni che si occupano di adozioni. Non vogliamo che dalla nostra lettera traspaia vittimismo. Non ci interessa e non è mai stato questo lo spirito conduttore della nostra vita. Siamo (e ci auguriamo di esserlo anche in futuro) persone positive. Raccontiamo il nostro caso perché forse, tra le righe e i fatti, si annida qualcosa che si può descrivere come “eterofobia” (o famigliafobia, o accoglienzafobia, o aperturafobia o donofobia o cristianofobia). Uso tra parentesi tutti questi termini perché nella nostra storia di coppia che ha voluto aprirsi alla prospettiva dell’adozione, c’è un po’ di tutto questo. Dopo 6 anni di matrimonio senza figli, abbiamo iniziato a pensare al cammino dell’adozione. Benché la natura (e da credenti, il buon Dio) sembra che non ci abbiano del tutto tolto la possibilità di avere figli naturali, non abbiamo voluto intestardirci su pratiche di fecondazione in Italia o all’estero. Siamo stati educati a considerare i figli come un dono. E un dono, si sa, non è né dovuto né obbligatorio. Può arrivare quando meno ce lo si aspetta. Ma può anche non arrivare mai. Consci di tutte le difficoltà e le lungaggini delle pratiche adottive italiane, ci siamo messi in moto comunque con fiducia, aperti a quello che il buon Dio avrebbe donato alla nostra vita. Avevamo ben visibili le storie felici (pur tra mille difficoltà) di diverse famiglie adottive, il desiderio di questi bambini di essere accolti da un papà e da una mamma. E il desiderio nostro di mettere a disposizione di questi piccoli la nostra affettività e il nostro progetto di vita. La legge italiana non vieta la domanda di adozione a chi è potenzialmente fertile. Così è, e così dovrebbe essere. Eppure, fin dai primi colloqui di gruppo e singoli con assistenti sociali e aziende sanitarie locali, siamo stati guardati – per non dire vivisezionati – con particolare interesse. Unica coppia a non essersi sottoposta a fecondazioni o ad accertamenti ultrainvasivi tra quelle presenti ai corsi, siamo stati convocati singolarmente per essere avvisati che questo nostro comportamento non sarebbe piaciuto al Tribunale dei minori. Nei corsi, inoltre, non di rado si dedicava tantissimo tempo alle storie di fecondazione fallita, lasciando pochissimo spazio ai veri valori in gioco nell’adozione. Addirittura, benché all’epoca non fosse legale, si ricordava velatamente alle coppie la possibilità di ricorrere all’eterologa, senza interrogarsi minimamente sui rischi di questa pratica. I successivi colloqui individuali e di coppia con le assistenti sociali ci hanno confermato lo sguardo intriso di pregiudizi verso una coppia che non faceva mistero della sua visione cattolica e della sua apertura alla vita. La convinzione che la nostra famiglia potesse vedere presenti sia figli naturali sia adottivi, così come la pervicace certezza che un figlio (adottivo e no) sia comunque un dono non sono stati accolti con simpatia. Addirittura, quando abbiamo parlato di figlio adottivo come dono, siamo stati rimproverati perché questa affermazione provocherebbe fastidio nel piccolo adottato! La relazione finale delle assistenti sociali è servita al Tribunale dei minori per giudicarci “non idonei”, con la motivazione che la nostra apertura indiscriminata alla vita non ci permetterebbe di comprendere fino in fondo i problemi delle adozioni. E con un accento negativo sul desiderio di avere anche figli naturali. Io e mia moglie non siamo – grazie a Dio – persone perfette. Siamo pieni di difetti e di limiti. Eppure abbiamo entrambi una lunghissima storia di volontariato e di attenzione al sociale. Io ho lavorato per anni nell’ambito della cooperazione internazionale e del Terzo settore, vedendo da vicino con i miei occhi situazioni di abbandono minorile. Non ci interessa esibire chissà quale curriculum, ma non possiamo nasconderle l’amarezza per come questa storia personale di vicinanza al prossimo sia stata annichilita. La stessa sensazione, lo sappiamo per certo, la vivono anche altre coppie a cui è stata negata l’idoneità. Spesso, l’idoneità è negata a chi ha già un figlio adottivo, con la motivazione ideologica che debba già far fronte alle problematiche del primo. Se questi assistenti sociali entrassero in molte famiglie con 3 o più figli naturali, ci sarebbe da aspettarsi che gliene portino via qualcuno ritenendoli degli incoscienti...
È possibile che chi è totalmente aperto alla vita, senza pregiudizi e pretese, venga a tal punto umiliato? È possibile tutto questo in un Paese che vive una profonda crisi demografica? Visto che la recente sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa, teorizza (per noi in modo aberrante) che il figlio è un diritto frutto di un desiderio «incoercibile», perché questo non vale anche per l’adozione? Davvero, non c’è discriminazione verso le coppie che vogliono adottare? E non c’è ancora più discriminazione (in un modo che misura, modella e calcola tutto), per chi fa della gratuità il suo stile di vita? Ci vien da pensare, senza inutili lamentele, che i veri discriminati siamo proprio noi cattolici, aperti alla vita senza pregiudizi.
Francesco e Gloria
Avete scritto tutto voi, cari amici. Con la pacata ed efficacissima eloquenza dei fatti. Io mi permetto solo di aggiungere un incitamento: coraggio, forza… E una raccomandazione: non lasciate che certe storie, certe sentenze e le amarezze che inevitabilmente procurano vi rendano tristi e “sterili”. Non lo siete e non lo sarete mai, come ogni altra coppia capace di attendere e cercare la vita, accogliendola, servendola e amandola in diversi modi, con la necessaria umiltà e una tenace gioia.