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Il governo del Kazakistan aveva creduto davvero che diventare la patria dei cercatori di bitcoin fosse una grande idea. Nel giugno del 2020 Askar Zhumagaliyev, ministro dell’Innovazione, aveva presentato un progetto sviluppato con “esperti internazionali” per attirare i “minatori” di criptovalute nell’ex repubblica sovietica, che così avrebbe potuto approfittare della febbre del trading che aveva già contagiato mezzo mondo. Ai cercatori di bitcoin non occorre molto. La loro attività, il mining, consiste nel mettere computer estremamente potenti al lavoro sui calcoli per decriptare i blocchi di transazioni della blockchain, il sistema informatico non centralizzato alla base della criptovaluta.
Il primo gruppo di computer che completa il calcolo valida un blocco di transazioni e ottiene dei bitcoin come ricompensa. Per fare un lavoro di questo tipo servono i computer, una connessione a Internet affidabile, abbondante energia elettrica a basso costo: con computer di media efficienza l’estrazione di un singolo bitcoin consuma circa 143mila kWh di elettricità. In Kazakistan la rete web non era un problema e l’energia abbondava. Grande esportatrice di carbone, petrolio e gas naturale, la sterminata nazione asiatica ha «una capacità energetica più che doppia rispetto alla sua domanda », come scrive l’Agenzia internazionale dell’energia nella sua ultima analisi sulla situazione del Paese. A 5,5 centesimi di dollari per kWh, il prezzo dell’elettricità kazaka è tra i più bassi del mondo, circa un quarto di quello italiano e metà di quello cinese.
Zhumagaliyev aveva fatto i suoi calcoli: il governo avrebbe potuto attirare investimenti da 300 miliardi di tenge in tre anni (sono circa 600 milioni di euro) dai minatori di bitcoin e guadagnare parecchio tassando anche solo una piccola parte della ricchezza che avrebbero generato. Pochi mesi dopo Zhumagaliyev è stato allontanato dal governo (ora è ambasciatore nei Paesi Bassi) ma il suo piano è andato avanti. Secondo i dati dell’università di Cambridge, gli unici che tracciano con un certo grado di affidabilità l’attività di ricerca di bitcoin nel mondo, nel luglio 2020 il Kazakistan faceva meno del 5% del mining mondiale. Un anno dopo la quota era già salita a quasi il 9%. Poi le cose sono andate fuori controllo.
Nel maggio del 2021 la Cina, che ospitava quasi il 50% dell’attività mondiale di ricerca dei bitcoin, ha messo al bando il mining nell’ambito di una strategia di contrasto al trading speculativo e di contenimento dei consumi energetici. È iniziato il grande esodo dei miners. Molti hanno trovato rifugio in Kazakistan. Giganti del settore come BIT Mining, Canaan o Xive hanno annunciato il trasloco di migliaia di computer dalle megalopoli cinesi alle aree nei pressi di Nur-Sultan (la capitale che fino al 2019 si chiamava Astana) e Almaty. La quota kazaka nell’attività mondiale di mining è raddoppiata nel giro di un’estate, fino a raggiungere il 18% nell’agosto del 2021. È allora che sono iniziati i problemi. L’autorità che gestisce la rete elettrica kazaka ha iniziato a segnalare scompensi: le vecchie infrastrutture elettriche non erano in grado di sostenere il brusco aumento dei consumi nelle aree in cui lavoravano i computer dei cercatori di bitcoin. Sono iniziati i periodici blackout nei villaggi, le interruzioni programmate dell’elettricità, il contenimento delle forniture per le attività più energivore, a partire proprio dalle “miniere” di bitcoin.
A livello nazionale il Paese si è trovato nell’inedita situazione di importare elettricità dalla Russia, a caro prezzo, perché i consumi, cresciuti dell’8% in un solo anno, avevano sorprendentemente superato la produzione delle centrali a carbone e a gas che producono quasi tutta l’elettricità kazaka. Il presidente Kassym-Jomart Tokayev, in una riunione con i banchieri del Paese, ha parlato di ritorno al nucleare, abbandonato da vent’anni, per riportare in equilibrio il sistema. «Il ruolo di un leader è prendere decisioni impopolari» ha spiegato in quell’occasione Tokayev, con parole che appaiono tristemente profetiche dopo che il presidente kazako ha ordinato all’esercito di sparare sulla folla. Ai problemi della rete elettrica si è aggiunta la delusione economica.
Già all’inizio dell’estate Bagdam Musin, che ha preso il posto di ministro di Zhumagaliyev, ha ammesso che l’aumento degli incassi promesso anche dalle associazioni dei miner non c’è stato: «Vediamo arrivare gli investimenti dei miner, ma ci sono poche entrate fiscali. Non vediamo migliaia di persone impiegate in questo settore». Nel tentativo di guadagnarci qualcosa, il governo kazako ha provato a introdurre una tassa, non particolarmente pesante, sui consumi elettrici delle miniere dei bitcoin. La tassa è entrata in vigore il primo gennaio 2022. Troppo tardi. I problemi tecnici e il cambiamento di atteggiamento del governo, prima ancora delle rivolte, hanno fatto capire ai miner che era di nuovo il momento di sloggiare. Alla fine di novembre il Financial Times raccontava l’inizio del grande trasloco delle macchine dei miner dal Kazakistan verso altri lidi: la vicina Russia o, soprattutto, gli Stati Uniti, la cui quota nell’attività mondiale di mining è balzata dal 4 al 35% nel giro di un anno. Non è scontato però che il governo americano abbia voglia di ospitare molto a lungo i cercatori di bitcoin.
Le cronache di questi ultimi anni raccontano che i Paesi in cui i minatori di criptovalute portano i computer si stancano molto rapidamente della loro presenza: la Cina li ha cacciati (anche se pare che in molti continuino a lavorare in clandestinità), l’Iran ha sospeso le loro attività per quattro mesi, il Kosovo li ha messi al bando e nei giorni scorsi ha sequestrato decine di computer che continuavano illegalmente a cercare bitcoin. In Scandinavia, dove l’energia costa molto meno rispetto alla media dell’Unione Europea, la Svezia non vuole il mining e ha proposto di vietarlo in tutta l’Ue, la Norvegia (che dell’Ue non fa parte) ha appoggiato l’idea svedese, mentre l’Islanda ha deciso di non accettare più richieste per avviare attività di ricerca di criptovalute.
Le ragioni per vietare l’attività di mining sono sempre le stesse e appaiono difficilmente contestabili: quello che fanno non serve a nessuno, se non a loro, e crea solo problemi. La ricerca degli ultimi due milioni di bitcoin ancora da estrarre dalla blockchain (sui 21 milioni del limite “tecnico” del sistema) è un’attività ad altissimo consumo energetico. Secondo le ultime stime dell’Università di Cambridge, il consumo annuo di energia dell'intera rete dei bitcoin ammonta a 121,7 TWh, una quantità di elettricità che basta a soddisfare la domanda nazionale di nazioni come l’Argentina o i Paesi Bassi. In una fase storica in cui ogni governo si è dato obiettivi di risparmio energetico per azzerare le emissioni e frenare il riscaldamento climatico non ha senso dedicare una simile quantità di elettricità all’estrazione di criptovalute.
Anche l’impatto economico e sociale di una miniera di bitcoin è negativo: non porta occupazione, se non per pochissimi tecnici informatici che badino ai computer, e mette sotto pressione la rete elettrica, aumentando il rischio di guasti, interruzioni delle forniture e necessità di intervento. Per il fisco i vantaggi sono pressoché nulli, essenzialmente limitati alle tasse sul consumo di energia elettrica. Depositate in portafogli anonimi, privi di una qualsiasi “residenza fiscale”, le criptovalute sono diventate il denaro preferito dalla criminalità proprio per la loro capacità di sfuggire a ogni tipo di controllo. Risalire al proprietario di un portafoglio di criptovalute è un’operazione difficile per la polizia e ancora di più per gli agenti del fisco. I profitti dei minatori se ne vanno in paradisi fiscali lontani dai territori da cui i loro proprietari hanno attinto l’energia elettrica.
Più che agli eroici minatori della rivoluzione industriale, i cercatori di bitcoin sono simili alle bibliche locuste, che in questo caso divorano le risorse (elettriche) di un territorio e se ne vanno non lasciando nulla di buono dietro di sé. È facile prevedere che il loro esodo iniziato l’anno scorso in Cina proseguirà probabilmente ancora per molto tempo. Almeno finché un’auspicabile esplosione della bolla non guarirà il pianeta da questa febbre da trading online e criptovalute, che sembra avere toccato il suo apice di allargamento della base di “investitori” con le pubblicità delle “borse” crypto sparse un po’ ovunque durante le partite di calcio. A quel punto i “minatori” potranno smettere di traslocare i computer da un Paese all’altro e rassegnarsi alla già evidente inutilità sociale della loro attività.