Doriana Goracci
L'amarezza che traspare da queste sue accorate considerazioni, cara Doriana, mi fa cogliere un profondo coinvolgimento, un dolore acuto. La ringrazio per averne reso partecipe la famiglia di Avvenire, che condivide nel profondo la sofferenza di tanti italiani al cospetto di notizie come questa. È lo stesso sgomento che anch’io ho provato quando dai primi lanci d’agenzia, attorno alle 15.30 di martedì, ho appreso del dramma che si era appena consumato nella grande raffineria alle porte di Cagliari. Tre vittime, le loro famiglie, l’apparente spietatezza di un meccanismo produttivo che in tanti settori – in primis l’edilizia – chiede ancora un tragico prezzo a chi con grande fatica e pericolo personale cerca semplicemente un futuro per sé e i propri cari. Questo dramma del lavoro ci riporta in quella Sardegna dove l’occupazione va sfumando per tanti operai, a colpi di centinaia di posti persi a ogni impianto che chiude, alimentando la triste contabilità di impieghi evaporati in tutta Italia che abbiamo aggiornato con la nostra inchiesta sulla crisi regione per regione. Sono d’accordo con lei: nessun gesto pare all’altezza di una morte per lavoro. È una delle tante vicende umane di fronte alle quali si è colti dal senso di un’ingiustizia che leva il fiato, e che ci fa sentire una volta in più sproporzionati rispetto al mistero di una morte improvvisa, incomprensibile, piombata proprio là dove si cercava la piena realizzazione della propria dignità. Proprio per l’incommensurabilità della ferita che si riapre ogni volta che veniamo a sapere di un caduto sul lavoro – e purtroppo accade quasi tutti i giorni – nulla appare eccessivo perché si circoscriva sempre di più questo stillicidio quotidiano, sino a estinguerlo. Le norme di sicurezza sono severe, in talune produzioni – come nelle raffinerie – dettano comportamenti che rendono sempre più rari episodi come quello di Sarroch. Forse proprio per questo quando la tragedia arriva colpisce come un pugno allo stomaco. Abbiamo saputo che lì come altrove gli operai sanno bene quel che devono fare, ma la pericolosità del loro lavoro è tale che il confine tra la vita e la morte a volte si fa sottilissimo, dentro una cisterna o sul tetto di una casa in costruzione, nella cabina di un camion o accanto a una pressa... No, no stiamo in silenzio, cara Doriana: la morte per lavoro non è una fatalità che va subìta come un destino, ma una piaga contro la quale si può fare ancora molto, dall’imprenditoria alla politica, ai mezzi di comunicazione, che devono rendere sempre più acuta la sensibilità di tutti. Quanto a noi, il dolore che immaginiamo in quelle famiglie private del padre, del fratello, del figlio ci riporta ogni volta di fronte alla nostra coscienza. E non ci consente di liquidare questa strage continua come un effetto collaterale del nostro fragile benessere.
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