venerdì 3 aprile 2009
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Caro Direttore, la mia generazione, già nelle aule scolastiche, ha avuto molto di che riflettere sul razzismo, sulla discriminazione legata al colore della pelle, alle diverse concezioni politiche e religiose, alla differente provenienza sociale. L’esempio classico, il caso da deplorare (giustamente) era il Sudafrica con la sua politica di «apartheid», della segregazione dei neri, della ingiusta e discriminante società separata. Proprio leggendo le pagine più educative (da qualsivoglia «pelle» provenissero) su questo tema, abbiamo coltivato e maturato la consapevolezza dell’uguaglianza fra gli umani e del medesimo diritto a esistere. Abbiamo esultato per la raggiunta democrazia del Paese. Quale delusione, ora! Proprio il Sudafrica coltiva la discriminazione verso il Dalai Lama, premio Nobel cui è stato negato il visto d’ingresso perché potesse partecipare a una conferenza internazionale sullo sport e sul calcio. Quel governo, quei governanti, sembrano simili ai segregazionisti d’un tempo. Peccato!

Franco Cavaleri, Buguggiate (Va)

L'episodio a cui lei si riferisce, caro Cavaleri, ha suscitato giusta indignazione nella comunità internazionale, salvo poi essere archiviato con rapidità. Una celerità sospetta, o forse illuminante riguardo un diffuso «realismo» politico che diviene cinismo di Stato. I fatti, risalenti a qualche giorno fa, sono presto riassunti: le autorità del Sudafrica hanno negato al Dalai Lama il visto d’ingresso per partecipare a una conferenza di Premi Nobel per la Pace legata ai Mondiali di calcio del 2010 sul tema – importante – dello sport quale strumento contro il razzismo e la xenofobia. Mondiali di calcio che proprio il Sudafrica sta organizzando con grande sforzo economico e tecnologico, riconoscendovi un’occasione importante di sviluppo e di comunicazione. Il veto ha sollevato l’immediata reazione dello stesso Nelson Mandela e di altri due Premi Nobel suoi conterranei: l’ex presidente Willy de Klerk e l’arcivescovo Desmond Tutu, i quali hanno scritto al presidente sudafricano Kgalema Motlanthe per avere spiegazioni. Sentendosi rispondere che il Sudafrica «non ha alcun problema con il Dalai Lama», ma concedergli il visto «avrebbe distolto l’attenzione del mondo dai preparativi per la Coppa del Mondo 2010», dal momento che «la visita ora del Dalai Lama sposterebbe l’attenzione dal Sudafrica al Tibet». Un’argomentazione che sembrava dettata direttamente da Pechino, che infatti ha dato il suo plauso ufficiale alla cosa. Sarà un caso che, solo qualche giorno prima, il Fondo per lo sviluppo Cina-Africa (con un budget miliardario, in dollari) avesse aperto il suo primo ufficio africano proprio a Johannesburg? Anche il Sudafrica ha così imboccato la strada di una «realpolitik» funzionale a favorire le relazioni economiche e commerciali con la potente Cina, la quale trova nella nazione dell’Africa australe un partner per soddisfare la propria fame di materie prime, soprattutto in campo minerario. Una scelta del genere, però, va a detrimento dell’idealità su cui il Sudafrica ha costruito la propria storia recente, nonché la propria prestigiosa immagine di Paese-guida della speranza e del riscatto africani. Lo ha denunciato a chiare lettere, sul «Sunday Tribune», lo stesso Tutu, parlando di «un totale tradimento della nostra storia di lotta». Peccato, davvero. Ma ci attendiamo che la massiva attenzione mediatica di cui il Sudafrica sarà oggetto nei prossimi mesi suggerisca ai suoi dirigenti maggior prudenza, e scelte coerenti con l’autorevolezza di cui gode il loro Paese.

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