“Vedi, la vita è così…Fai, fai, fai e poi te ne vai”. In una stanza d’ospedale un uomo prossimo alla morte parla con la figlia, e traccia su dei fogli di carta i suoi ultimi pensieri. Dimenticatevi, se volete, che è Silvio Berlusconi, uomo molto amato e molto odiato, anche visceralmente, anche da tanti cattolici: ormai, è davanti a un altro giudice.
Immaginate solo quella stanza, la mano che trema, il senso di spossatezza. Il malato sa che manca poco. Alla figlia che gli è accanto cerca di spiegare ciò che da giovani non si capisce, e giunti alla fine spesso non si sa più dire. «La vita è così…Fai, fai, fai e poi te ne vai» mormora Berlusconi. Mi colpisce questa frase semplice. Da 80 anni di vita si potrebbero trarre decine di libri di memorie. Oppure, si possono semplicemente declinare poche parole. Smarrite nella debolezza, ma umanamente vere: «Fai, fai, fai e poi te ne vai».
A vent’anni non si può capire, a trenta neanche. Sui cinquanta forse qualcosa si comincia a intuire. A sessanta, e dopo, la questione si fa un’evidenza. Amici, passioni, amori, viaggi. Diploma, laurea, e poi lavoro tutti i giorni. Se ti chiami Silvio Berlusconi, cose in grande: imprese, edilizia, tv, politica, adoratori e nemici. Figli, e figli dei figli. Crisi, malanni, anni che avanzano. E fai, fai, fai: che tu sia il capo della Fininvest o un semplice impiegato che ha da pensare alla casa, e alla famiglia. Ogni mattina una urgenza ci chiede di essere affrontata. Per Berlusconi investimenti milionari, un regno mediatico, poi l’esordio in politica, i processi, le assoluzioni, le condanne e anche le misure alternative alla detenzione. Per noi ansie comuni, esami, concorsi, stipendi precari. Figli, se ne hai il coraggio. Mutui, bollette. Amici cari e amici che se ne vanno. Fede in Dio, magari oscillante, a seconda delle contingenze e del bisogno – anche se spesso questa fede resta come un qualcosa “a parte”, parallela ma non secante la realtà quotidiana.
Poi, ti accorgi che per i giovani sei già vecchio. Che fatichi a stare dietro a mode, e modi di dire, ai menu dei ristoranti nascosti nei QR, alle password, i pin, gli Spid. Stanchezza, allora. Ti guardi indietro, come tanti hai studiato, hai tremato alla Maturità, hai imparato un lavoro. E quarant’anni di sveglia che suona alle sette, o molto prima, quarant’anni di treni o metrò affollati, la sera. Gravidanze, parti, ninna nanne, primi giorni di scuola, adolescenze ombrose. E fai, fai, fai. Non puoi fermarti. Pensi forse che con la pensione riposerai. Illusione: i nipoti cui badare, e i primi acciacchi. Visite, esami, avvertimenti. Talvolta, verdetti.
L’ultima età si approssima veloce. E disciplinatamente tu ancora fai, fai, ma quasi ti scivola via la terra sotto ai piedi. “Fai”, adesso, per andare dove? “Fai”, e poi? L’imperativo morale e un po’ calvinista del lavoro che in molti condividiamo impatta allora con l’ignoto che le si para davanti. A questo punto c’è un bivio, e io mi ci ritrovo spesso, incerta come un viandante. Fai, fai e poi te ne vai, potrei dire anch’io, mentre rivedo la ruota del lunapark davanti alle finestre di casa a Milano, anni ’70. Salivano emozionati i passeggeri, li sentivi ridere sempre più eccitati, man mano che la ruota li portava in alto, fino al culmine. Poi, lentamente, cominciavano a scendere. Fino a terra, dove si voltavano a guardare con invidia i nuovi viaggiatori, dicendosi: beati loro. A quella ruota luminosa, ultimamente penso spesso: fai, fai e poi te ne vai. Non ce lo diciamo anche noi? A meno che quel Dio in cui credi, davvero non si faccia linea secante che ti traversa la vita, in una metamorfosi. Allora ciò che hai fatto, di bene, di male, di perdonato, va oltre la tua personale esistenza: è vita data ad altri, che non finisce con te. È risposta a ciò che ti è stato domandato, pure con tutti i tuoi errori, è il pezzetto di storia che consegni, nel giorno della mietitura. Toccante la sintesi di Silvio Berlusconi nelle sue ultime ore, e comune in fondo anche a tanti cristiani che arrivano a quel giorno, affannati e quasi sbalorditi: tutto è stato così veloce.
La grazia che io vorrei sarebbe, in quel giorno, vedere, anzi sperimentare fisicamente come Cristo sia «tutto in tutti», e in lui niente sia perduto. La grazia, scrive Bernanos, «consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente del corpo di Cristo».