IMAGOECONOMICA
I dati Istat sul 2023 e il rapporto Caritas di recente pubblicazione offrono una fotografia dettagliata della povertà in Italia, dove il 9,7% della popolazione (quasi un italiano su 10, più di 5 milioni e mezzo di persone) vive sotto la soglia della povertà assoluta. Questo significa avere un reddito insufficiente per acquistare il paniere minimo di beni e servizi essenziali, calcolato dall’Istat in base alla composizione del nucleo familiare, alla regione di residenza e alla dimensione del comune. Tra i poveri assoluti troviamo non solo disoccupati, ma anche lavoratori poveri e pensionati con assegni minimi. In Italia, infatti, si contano 4,8 milioni di pensionati che ricevono meno di 1.000 euro al mese e circa 2 milioni con una pensione minima intorno ai 615 euro. Questi ultimi contribuiscono significativamente alla crescita dei poveri assoluti nel Nord Italia, dove la pensione minima risulta spesso al di sotto della soglia di povertà. Al Sud, invece, la situazione è diversa: qui la pensione minima supera generalmente la soglia di povertà assoluta, offrendo una protezione maggiore rispetto al Nord.
La crescita degli anni vissuti in condizioni di non buona salute e della non autosufficienza contribuisce ad aumentare i costi per le famiglie e accresce il rischio di povertà. Questo sarà uno dei maggiori problemi del futuro, in un contesto di progressivo invecchiamento della popolazione e di pressione sui sistemi di welfare.
Le cause profonde della povertà e delle diseguaglianze sono ben note. L’impatto combinato di un’innovazione sempre più veloce e della globalizzazione genera l’effetto positivo di una crescita del Pil (e di un aumento del benessere non sempre pienamente incorporato nei dati macroeconomici, come dimostra la ricchezza digitale), ma allo stesso tempo aumenta le diseguaglianze all’interno di ciascun paese. Si crea pertanto un divario crescente tra alti e bassi redditi, accompagnato dal fenomeno relativamente nuovo dei lavoratori poveri.
Il modo ideale per affrontare il problema è quello di un universalismo selettivo che funzioni. Questo approccio implica una profilazione dei non abbienti sotto la soglia di povertà e candidati al sostegno economico, dividendo, sulla base delle informazioni acquisite, in occupabili e non occupabili. Due percorsi distinti permetterebbero di rispondere meglio ai bisogni specifici delle persone. Colloqui frequenti con assistenti sociali, come avviene in altri paesi, consentirebbero inoltre di distinguere chi ha veramente bisogno dai falsi poveri. Il precedente Reddito di Cittadinanza era universale e selettivo poiché subordinato a criteri economici e patrimoniali. Tuttavia, presentava ritardi significativi: in alcuni casi, il primo incontro con gli assistenti sociali avveniva anche dopo 8 mesi, limitando l’efficacia degli interventi di inclusione sociale. Nel nuovo sistema, la distinzione tra occupabili e non occupabili viene effettuata ex ante, principalmente sulla base di carichi familiari. Questa classificazione, però, rischia di essere inefficace, poiché non considera pienamente le condizioni individuali o le difficoltà specifiche che possono emergere tra i cosiddetti “occupabili”.
La nostra proposta è che la fonte di finanziamento di una nuova misura di universalismo selettivo arrivi dalla Banca centrale europea attraverso un social quantitative easing, ovvero una creazione di moneta apposita per questo scopo. Uno strumento possibile è quello dell’euro digitale, versato sui borsellini digitali dei beneficiari, con il vincolo di una riserva al 100%. La questione essenziale è evitare che la creazione di moneta generi inflazione, e un modo per farlo è proprio il vincolo di riserva.
I vantaggi di questa politica sarebbero molteplici. In primo luogo, migliorerebbe la reputazione della Banca Centrale Europea e dell’UE, il cui ruolo nella lotta alla povertà e nella promozione della sostenibilità sociale verrebbe immediatamente riconosciuto dall’opinione pubblica.
Inoltre, la percentuale di riserva obbligatoria sulla misura di sostegno al reddito potrebbe diventare uno strumento di politica monetaria. Condizionare la misura all’adozione di un sistema di universalismo selettivo con metodi adottati dai singoli Stati, di cui la Bce sarebbe garante, eviterebbe il rischio di disincentivo al lavoro. Ad esempio, garantire un numero adeguato di assistenti sociali per i colloqui con i beneficiari sarebbe essenziale per il successo del programma. Infine, il finanziamento diretto della Bce bypasserebbe i vincoli dei bilanci degli Stati membri, alle prese con percorsi di rientro dal debito che limitano fortemente le potenzialità di intervento a favore dei ceti più deboli.
Il quantitative easing ha svolto un ruolo fondamentale e ci ha aiutato ad affrontare le sfide più difficili degli ultimi decenni. Si parla oggi di green quantitative easing come di una strategia nell’interesse stesso delle istituzioni finanziarie, considerando l’attenzione crescente del sistema finanziario nei confronti del rischio ambientale e del rischio di credito aumentato dall’intensificazione degli eventi climatici estremi. Il social quantitative easing potrebbe essere uno strumento complementare fondamentale per evitare l’accusa di una transizione che ricade sulle spalle dei più deboli. Sarebbe inoltre essenziale per contrastare l’avversione dell’opinione pubblica nei confronti della transizione ecologica e digitale, nonché delle istituzioni europee.