mercoledì 11 dicembre 2024
Un tribunale annulla per due volte il premio da 56 miliardi di dollari al numero uno dell’azienda. Ma è una partita persa. E la questione non è solo etica, ma anche culturale ed economica
Elon Musk, proprietario di Tesla, SpaceX e del social network X (l’ex Twitter)

Elon Musk, proprietario di Tesla, SpaceX e del social network X (l’ex Twitter) - Reuters

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La giudice McCormick del Delaware, il 2 dicembre, ha invalidato nuovamente il piano di incentivi da 56 miliardi di dollari per Elon Musk. Vediamo l’aspetto tecnico. La determinazione dei compensi manageriali, specie se il manager è anche l’azionista di controllo (come Musk in Tesla), è per definizione sospetta di conflitto di interessi. Per evitarlo, la legge impone che a negoziare il compenso sia un comitato di amministratori indipendenti (non soggetti a dipendenze economiche o lavorative con la società) e che l’accordo sia poi ratificato dall’assemblea con il voto favorevole dei soci di minoranza. A gennaio di quest’anno, una lunga, pedante – ma corretta – decisione della corte del Delaware (stato dove gran parte delle società americane sono incorporate, non per vantaggi fiscali, ma per la specializzazione delle sue corti in materia societaria) ha annullato il piano d’incentivi stabilito dal consiglio di Tesla nel 2018. Motivo procedurale: il comitato non era indipendente, quindi la ratifica assembleare era viziata. Motivo sostanziale: 56 miliardi erano troppi, sebbene il capitalismo non conosca il “troppo”. Ma la procedura bastava a far crollare il castello.

A quel punto, Musk corre ai ripari: a giugno riconvoca l’assemblea per una nuova ratifica del medesimo pacchetto. Ora gli azionisti – minoranza inclusa – non possono dirsi ignari, avendo letto la sentenza di gennaio. E infatti approvano di nuovo. Ma la giudice invalida ancora il piano: non si può rendere valido con un voto successivo ciò che la corte ha già invalidato. Musk ribatte: un giudice non può sostituirsi alla volontà assembleare, ora informata. Se consideriamo la società come fenomeno privatistico, Musk avrebbe ragione. Se Tizio e Caio concludono un contratto annullato per un vizio di consenso (Tizio non aveva adeguatamente informato Caio) e poi, consapevoli, stipulano di nuovo lo stesso accordo, il giudice dovrebbe astenersi dal nuovo intervento. Fine della questione tecnica. Ma la posta in gioco è anche filosofica e politica. È moralmente accettabile (“morale” significa “riflessione su ciò che è giusto”) che un amministratore delegato riceva 56 miliardi di incentivi? L’etica welfarista direbbe sì: se serve per attirare le energie di Musk su Tesla invece che altrove, e fa crescere il valore azionario, allora il costo è giustificato. Questa pare la posizione degli azionisti: i 56 miliardi sono il prezzo del loro profitto.

È una lettura troppo semplice. Siamo in una fase del capitalismo anomala e più pericolosa di quella novecentesca. Un tempo, i conflitti sociali – sindacati combattivi, partiti che minacciavano di incrementare la tassazione, guerriglie politiche – fungevano da argine interno. Ora i conflitti svaniscono in un “tutti vincono” ( win-win) apparente, dove ognuno sembra trarre beneficio: manager, azionisti, lavoratori, fornitori, consumatori. Il problema diventa invisibile e, se tutto è ammesso per consenso, nessuno contesta quei limiti retributivi. L’argomento “stiamo tutti meglio” è però fallace: ignora la giustizia sostanziale, ovvero quanto alcuni stiano meglio rispetto ad altri. Qui il capitalismo svela la sua ottusità concettuale, affidandosi ad assunzioni di etica normativa arbitrarie: in fondo, se lo scambio è volontario, tutti lo desiderano; è solo questione di preferenze individuali! Preferenze insondabili, soggettive, imperscrutabili come Dio prima della Rivelazione, senza alcuna attenzione a come si formino e si trasformino. Allora, come ultima trincea, interviene una giudice del Delaware a porre un freno. Ma è un argine fragile, destinato a crollare sotto forze maggiori. Tesla ha già spostato la sede in Texas, dove i tribunali saranno meno sofisticati e più “amichevoli” verso il capitale. Negli Usa si può scegliere la giurisdizione d’incorporazione a prescindere dalla sede operativa. Il mercato è scelta, e così le regole. La sovrastruttura legale (Überbau) cede davanti alla struttura economica (Basis).

Il risultato è il preludio al rafforzamento di monopoli privati o, almeno, poteri di mercato straordinariamente concentrati. Tesla non è formalmente un monopolio, ma SpaceX — sotto il controllo di Musk — esercita un’influenza quasi monopolistica. Le circostanze attuali mancano di una giustificazione teorica. “Monopolio” qui va inteso in senso ampio: queste società, senza controllare formalmente l’accesso al mercato, ne influenzano profondamente dinamiche e scale. La giustificazione consequenzialista del mercato si fonda, però, su concorrenza perfetta, senza frizioni, con efficiente allocazione di risorse e surplus a vantaggio dei consumatori. Fuori da questo quadro ideale, la teoria non separa più le questioni di efficienza da quelle distributive, suggerendo l'intervento pubblico a garanzia di entrambe. I libertari, audaci caricaturali, invocano la fede cieca nel libero scambio: anche i monopoli, se prosperi, arricchiranno tutti, prima o poi. Ma se esiste un potere di mercato così concentrato, perché non affidare direttamente allo Stato – o indirettamente tramite coordinamento o partecipazione pubblica – il ruolo di guida, invece di lasciarlo al privato? I libertari rispondono con l’inefficienza pubblica, la sua inerzia e scarsità di mezzi, la retorica del politico che ruba, superando il limite della povertà concettuale. E infatti un colosso privato come SpaceX è più agile e ben dotato della Nasa. Grandi aziende americane come Amazon, Apple e Google superano ormai molti Stati occidentali per mezzi finanziari, dettando condizioni, scegliendo giurisdizioni, leggi e perfino tasse da pagare. Veri feudi moderni, con politici ridotti a valvassini del capitale. Non sorge il dubbio che l’impoverimento dello Stato, in potere e prestigio, sia in parte risultato di quella stessa competizione imperfetta che, rafforzando pochi, ha svuotato l’autorità pubblica?

La prossima amministrazione americana ha già un capitalismo senza limiti, e l’apparente neutralità di giornali come il Washington Post del “progressista” Bezos, che non appoggia candidati purché nessuno metta paletti antitrust, ha rivelato la miseria morale di questo scenario. La giudice McCormick tenta di difendere un mondo che non c’è più. E perderà la guerra. Da sola è irrilevante, come irrilevanti paiono tutte le istituzioni pubbliche davanti alla forza economica. Un po’ di autocritica: noi tutti, ottusi e accondiscendenti, confusi e riformisti (confusi e riformisti, sì: non più semplice sintagma nominale, ma definizione predicativa, sinonimia), abbiamo creduto ingenuamente di convivere con questi giganti economici senza fissare confini, aggrappandoci a terze vie inesistenti. Pagheremo la nostra ingenuità, la fede mal riposta in un sistema senza limiti, e il prezzo sarà democratico e culturale, prima che economico.

Resta la speranza, virtù sottovalutata, che gli Stati del mondo – come un tempo i proletari – si coalizzino per proteggere il futuro da queste derive. Sembrerebbe passé, oggi, richiamarsi alle grandi forze popolari ispirate da Palmiro Togliatti e dalla dottrina sociale della Chiesa di Pio XI. Eppure, la loro lezione conserva una straordinaria attualità. Togliatti, sul fronte politico essenziale, e Pio XI, su quello più ideale, compresero l'importanza di contrastare i grandi monopoli privati. Questo appello non può ridursi a sterile eco: richiede azioni politiche concrete, incisive, tanto da sinistra quanto da destra.

Simone Maria Sepe è professore Ordinario University of Toronto, Faculty of Law

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