Caro direttore,
è profondamente sbagliato fare l’equazione musulmano uguale terrorista, perché non è assolutamente vera, è ingiusta verso i musulmani e non aiuta a valutare correttamente i fatti. Dobbiamo però constatare che le persone responsabili dei gravi fatti di terrorismo dei giorni scorsi si richiamano o dicono di richiamarsi alla religione musulmana. Questo evidenzia una contraddizione che, prima di ogni altro passo, può essere risolta solo con un confronto e un dibattito franco all’interno delle varie realtà del mondo musulmano. Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, nella sua lectio magistralis presso l’università di Ratisbona del 12 settembre 2006 ha affrontato il rapporto tra fede e ragione con la chiarezza di argomenti propri di un grande studioso e teologo. Nella sua riflessione Benedetto XVI cita un intervento del professor Koury sul dialogo di Manuele II Paleologo con un dotto persiano, questa citazione nel contesto della lectio era funzionale a dimostrare l’irragionevolezza della violenza per imporre la fede. E rileggendo integralmente il testo, anche a distanza di tempo, non si possono non cogliere le basi su cui sviluppare un serio confronto tra le religioni. Ricordiamo invece i fraintendimenti mediatici e le reazioni del mondo musulmano in qualche caso anche violente, e anche reazioni del mondo occidentale che nel migliore dei casi giudicarono «inopportuno» il discorso e il monito del Papa. Le manifestazioni di dissociazione dai fatti di terrorismo, organizzate da gruppi musulmani, che coraggiosamente si sono svolte in molte città anche italiane con la partecipazione di tante persone, acquisterebbero un valore infinitamente più grande se fossero la scintilla che fa comprendere l’urgente necessità di avviare il confronto e il dibattito tra le massime autorità religiose dell’universo islamico sul rapporto tra fede e ragione e tra queste e la violenza. Questo dibattito potrebbe mettere le basi per un positivo confronto con tutti e minare gli argomenti pseudo culturali e religiosi cui i terroristi dicono di richiamarsi. La saluto e la incoraggio a continuare nel prezioso servizio che “Avvenire” sta facendo.
Antonio De Biasi - Lerici (La Spezia)
Caro direttore,
è certo motivo di grande conforto vedere come, a livello finalmente non soltanto privato, le comunità islamiche che abitano tra noi si attivino sia per esprimere la loro umana solidarietà per le vittime e il loro umano sdegno per gli assassini che abusivamente si proclamano buoni musulmani, sia per proclamare pubblicamente l’inconsistenza e follia di un’ignoranza, di un fanatismo e di una barbarie che pretendono di usurpare la loro fede. Temo però che, fraternamente ma schiettamente, si debba chiedere loro di più. Ricordo che, ai tempi del terrorismo – non meno feroce – delle Brigate Rosse, un mio amico, intellettuale militante nell’estrema sinistra di allora (Lotta Continua, per intenderci), mi diceva di sentirsi estraneo e ferito da quegli eccessi, ma di riconoscere che essi erano – espressione che mi parve molto efficace – «sul suo conto»: che cioè toccava a lui e a quelli come lui il dovere di individuare e chiarire, a sé stessi prima che agli altri, che cosa, nel loro credo politico, lo rendesse in qualche modo, e così facilmente, suscettibile di quelle devianze. Così da condannarle dove germogliano, e non solo nei loro esiti finali e aberranti. Ecco: questo è il punto, questa è la riflessione, la rettifica e la condanna che vorremmo ascoltare da chi ha l’autorità, il rango intellettuale, religioso e morale per farlo. Abbiamo visto, in passato, alte autorità religiose islamiche esprimere condanna (fatwa) per parole dette o stampate, per vignette satiriche divulgate ecc. Conforterebbe forse anche i nostri concittadini islamici, toglierebbe disorientamento al loro umano sdegno, se anche questi massacri sollecitassero una più radicale meditazione e più autorevoli pronunciamenti.
Francesco Roncalli - Bergamo