sabato 4 aprile 2015
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Gentile direttore, per qualche tempo, la mia Pasqua si è fermata al venerdì santo. La crisi economica sembrava avermi immobilizzata, impaurita e privata dell’orizzonte. Lo smarrimento era così tanto da non intravedere più nulla. La mia è la storia di una quarantenne, figlia primogenita di un papà imprenditore edile, da poco chiamato a una vita diversa, spero migliore di quella vissuta nell’ultimo decennio terreno. La sua è stata un’infanzia povera, in campagna; poi la volontà di imparare un mestiere, infine il salto a costruttore di case. Un sogno realizzato da una persona alla continua ricerca di amare la propria famiglia e il prossimo attraverso il lavoro: lo strumento principe per sentirsi protagonisti nello stare al mondo.
 
Per i nostri genitori l’impegno lavorativo ha rappresentato il mezzo per amarci e per contribuire alla felicità altrui. Un amore grazie al quale ho potuto studiare, avere una buona qualità della vita, imparare a fare impresa con la missione di generare e diffondere benessere. Di tanti nostri genitori, rimarrà indelebile la loro generosità e capacità di costruire futuro, per sé e per gli altri. Un giorno un infarto segnò per sempre mio padre. Iniziò per lui il calvario e per me la guida dell’azienda di famiglia assieme ai miei fratelli. Qualche anno ancora, poi la crisi economica, il tracollo del settore immobiliare, il disorientamento e l’oscurità. Il presente per tanti piccoli imprenditori è purtroppo ancora questo. Dentro di te percepisci che non sarà più come prima. Non sai cosa fare, chi ascoltare, mentre la paura di perdere tutto aumenta ogni giorno, come il livello dell’acqua nella stiva squarciata di una nave. Le relazioni professionali cambiano: diventi pericoloso, ad alto rischio; anzi, ti chiedono subito conto di tante cose che prima erano garantite soltanto dal tuo cognome e dalla tua reputazione. La tua storia ed etica d’improvviso non contano più nulla. L’economia da madre diventa matrigna, senza scrupoli, fino anche a ucciderti. Non ti dai pace, la testa cede e di notte gli occhi rimangono a guardare il soffitto.
 
Qualcosa però ti dice di non mollare, di non credere alla cultura dello scarto, di rimanere onesto, nel solco di chi ha costruito quel patrimonio che in parte, con rabbia, sei costretto a cedere per non saltare. Incominci allora a selezionare, ad approfondire le questioni, a ricercare chi può ancora credere in te, nonostante tutto. Ti ritorna in mente la figura di papà: uno che dalla polenta e miseria ha saputo costruire un capitale economico e sociale che non sai se riuscirai a mantenere. Lo vorresti vicino ad aiutarti a fare le scelte giuste, ma non è possibile. Ti senti un nodo in gola che non si può descrivere, finché non ti guardi dentro e inizi a dare un valore diverso a ciò che sei, che pensi e che ti circonda. Figlio del secondo dopoguerra, anche se con la quinta elementare ma con l’università della strada, mio padre l’aveva capito: la risposta alla “crisi” sta dentro la crisi stessa, nel suo significato originario. Quello di valutare, riflettere, discernere. La crisi non deve uccidere, ma far pensare. La si deve concepire per quello che in realtà è, ovvero il presupposto, la condizione necessaria per un cambiamento, per una rinascita, per una primavera interiore. «Se ci credi, tieni duro. Ma non fare compromessi con la tua dignità», è l’augurio pasquale di papà che mi risuona dentro. Il tunnel della crisi è ancora lungo e in salita, ma ho capito che anche per me, mia mamma e i miei fratelli può esistere la Pasqua di Risurrezione. La fede mi ha aiutato a stimolare la ragione, la quale è capace di farti scoprire, nelle parole di tutti i giorni, il loro autentico significato. Attraverso la crisi, ho maturato un particolare valore: quello di lasciare che la fede provochi il nostro pensare, ritrovando significati perduti o mai scoperti. Non so se riuscirò a salvare o addirittura sviluppare l’azienda di famiglia; so però di mettercela tutta perché al venerdì santo segue la Pasqua.
Auguri.
Lettera firmata
 
Non me la sono sentita di tagliare la sua lettera, gentile e cara signora. E neanche di cercare di convincerla (forse ci sarei riuscito) a firmare con nome e cognome. Credo che lei, dal suo Veneto, mi abbia fatto avere una pagina di vita e l’espressione di una volontà di risurrezione che meritano di essere accolte e meditate – sì, meditate – così come sono. Non legate a un solo nome, ma popolate di molti nomi non detti, di affetti familiari, di dubbi, di parole sagge incontrate e fatte proprie, di amicizie, di dure fatiche, di sconforti e di riconquistate speranze. Nel lavoro che lei ricomincia con nuova lena, più visione, originaria determinazione e profonda fiducia cristiana ho ritrovato anche un po’ della “provvista” di seme buono e di “tecnica” delle fondamenta salde che, con tenacia contadina e umiltà da muratori, cerchiamo di condividere dalle pagine di “Avvenire”. La ringrazio per questo dono pasquale. Ci creda fortemente, ci creda felicemente, ci creda con tutto l’amore che ha imparato da suo padre e che ha conservato, ricompreso e moltiplicato in famiglia e coi suoi collaboratori. E ci riesca. Che sia Pasqua. 
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