Daniele Lucchini, Mantova
Il tema che lei tocca, caro Lucchini, è dibattuto da tempo e nei giorni scorsi è tornato in grande evidenza per la condanna in Svezia dei responsabili di uno dei siti più famosi di scambio di files via Internet, dal nome evocativo di «Baia dei pirati», a conclusione di un processo (di primo grado) nel quale si sono fronteggiate le due «filosofie» che lei richiama: quella dell’industria che vuole tutelare i propri prodotti, e i paladini della rete come zona franca che pretendono scambi sempre liberi e gratuiti. Personalmente, se da un lato ritengo che talvolta le norme a salvaguardia del diritto d’autore impongano tutele dalle durate irragionevoli e che i prezzi pretesi per certi film, giochi, canzoni siano eccessivi, non riesco a trovare convincenti i suoi argomenti. Provi a cambiare appena un po’ l’esempio, passando dal cinema italiano a quello americano o alla musica: la sua giustificazione – «Abbiamo già pagato con le tasse» – frana irrimediabilmente. Un’infinità di prodotti – film, canzoni, libri, programmi per computer, giochi... – è scaricata abusivamente, senza alcun consenso dei legittimi proprietari. Questi vengono defraudati del loro legittimo compenso. In un negozio normale, se si ritiene che un prezzo sia troppo alto, si lascia l’oggetto sullo scaffale; il relativo anonimato e l’altrettanto relativa invisibilità di Internet – sempre meno effettive, peraltro – non possono autorizzare quella che resta un’appropriazione indebita. Concordo con lei sul fatto che Internet abbia introdotto cambiamenti irreversibili di abitudini nell’acceso e nella fruizione di contenuti culturali per una parte già amplissima della popolazione. E anch’io ho l’impressione che l’industria non abbia ancora trovato la misura giusta nel reagire, ma il dissenso dai comportamenti di case discografiche e produttori cinematografici non autorizza il ricorso all’«esproprio digitale di massa».
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