sabato 9 giugno 2012
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In questi giorni in Italia le scuole chiudono per la pausa estiva, mentre per molti studenti si apre la stagione degli esami e della maturità. Tutti saranno valutati a partire dal loro impegno e dalla loro formazione. Ma c’è anche una valutazione dell’istituzione scolastica da immaginare. E qui vogliamo sottolineare che per quanto riguarda l’integrazione la nostra è una scuola va promossa.A Brindisi nella manifestazione successiva all’attentato una studentessa ha detto: «Non era mai successo, nessuno aveva mai toccato la scuola, perché la scuola è zona franca». Sì, la scuola è zona franca, è un luogo liberato, un luogo sospeso. Don Milani amava dire che la scuola «siede tra il passato e il futuro». A scuola si è liberi. Liberi dalle paure di un tempo spaesato, dalla pressione mediatica, liberi dalle semplificazioni e dai luoghi comuni, e si scorge il futuro. La scuola trasmette il nostro passato, indaga il nostro presente, ma ci rivela il nostro futuro. Parafrasando il poeta Andrea Zanzotto, purtroppo recentemente scomparso, si potrebbe dire che la scuola – lui diceva «i bambini» – viene «dal futuro».È significativo vedere come a scuola – e dunque nel futuro – bambini, ragazzi, adolescenti figli di stranieri, vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani. Somigliano ai loro compagni italiani. La maggior parte dall’inizio. Qualcun altro dopo un po’ di tempo, qualche mese dopo essere giunto qui assieme ai genitori o a qualche parente. Tanti figli di romeni conoscono meglio Manzoni che Eminescu, i figli di peruviani hanno più familiarità con Garibaldi che con Bolìvar. Tutti scrivono e studiano in italiano, amici maestri o professori mi garantiscono con risultati non di rado migliori degli stessi alunni con genitori italiani. Lo scenario che in tante scuole si ha davanti è questo: un’integrazione efficace, non sempre e del tutto riuscita, ma comunque efficace. Un’integrazione che vive il respiro dell’istituzione scolastica, di questo snodo prezioso e unico del nostro corpo sociale. Uno spazio libero e capace di liberare, formare e trasformare.Un formare e trasformare che non è a senso unico. Ché non si tratta soltanto di rendere "più italiani" quegli alunni che potrebbero sembrarlo di meno. Ma di arricchire tutti, figli di cittadini italiani e figli di stranieri, e di renderli tutti italiani "nuovi", capaci di convivere con la diversità e la pluralità, attrezzati a pensare e ad agire in modo non provinciale, ma con la misura di un mondo largo e complesso. "Fare gli italiani", oggi, vuol dire anche aiutarci a essere cittadini di quel villaggio globale che è il nostro pianeta.Anche. Ma non solo, ovviamente. L’uomo e la donna più globali e cosmopoliti hanno in ogni caso bisogno di radici, di un’identità, di una cittadinanza. Giuseppe Caliceti, un insegnante elementare di Reggio Emilia, autore di qualche buon contributo sulla scuola, racconta: «Una mia alunna di qualche anno fa, Vera, undici anni, disse in classe con semplicità: "Io sono nata in Italia, però mia mamma e mio papà sono albanesi. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Vorrei chiedere al maestro: ma io sono italiana o albanese, o tutt’e due? La seconda domanda: ma io, se non mi sono mai spostata da qui, sono immigrata?"».Le domande di Vera sono le nostre. La responsabilità di tutti – istituzioni, politica, società, scuola, famiglie – è grande. Sta a noi prendere sul serio la domanda delle seconde generazioni, il loro essere in bilico tra due mondi, il loro sentirsi italiani, pur senza esserlo da un punto di vista giuridico. Sta a noi prendere sul serio il futuro. Sta a noi vivere questo come un tempo in cui fare una battaglia culturale e forzare la resistenza e l’inerzia che tante volte circondano il tema cittadinanza.Il nostro compito è anche questo. È dare ascolto alla voce che sale da questa zona franca. È non tradire il futuro che è già sbarcato tra i nostri banchi, e che rumoreggia al suono dell’ultima campanella di quest’anno scolastico.
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