Nel giorno in cui la Russia decide di cancellare i taleban dall’elenco delle formazioni terroristiche in nome di promettenti affari, la Corte di giustizia dell’Unione europea mette un punto fermo davanti alle nostre coscienze: quello in vigore in Afghanistan è una persecuzione contro le ragazze e le donne. Senza se e senza ma. Come è noto, gli “studenti coranici” che si sono impossessati del Paese asiatico nell’agosto 2021, hanno via via vietato alle ragazze di studiare dopo le scuole elementari, alle donne di lavorare fuori casa, uscire per strada, viaggiare e di recente perfino fare udire la propria voce.
Ebbene, ieri la Corte di Giustizia della Ue ha stabilito che le cittadine dell’Afghanistan hanno diritto di asilo negli Stati membri senza necessità di accertamenti o controlli. La situazione del Paese, a cui Russia e Cina e altri fanno la corte per appropriarsi delle ricchezze naturali, è talmente annichilente per le donne che non c’è bisogno di provare alcunché. Il caso esaminato dalla Corte di giustizia riguarda due giovani afghane, immigrate in Austria nel 2015 e nel 2020, quindi prima della conquista del Paese da parte dei taleban. L’asilo fu loro rifiutato, ma dall’agosto 2021 le cose sono radicalmente cambiate e il tribunale austriaco ha chiesto alla Corte Ue, che ha sede in Lussemburgo, da una parte se le misure discriminatorie messe in atto dai taleban sono da considerarsi atti di persecuzione tali da giustificare il riconoscimento dello status di rifugiate, e dall’altra parte se nella valutazione devono entrare altri elementi, oltre alla nazionalità e al sesso della richiedente. Le risposte, arrivate ieri, sono un sì e un no. Sì: le donne – tutte le donne – in Afghanistan sono perseguitate e annientate per il solo fatto di appartenere al genere femminile. No: per chi deve valutare la concessione dello status è sufficiente che la richiedente sia afghana.
La sentenza della Corte è importante perché mette un punto fermo alle prassi dei singoli Paesi membri, anche di quelli più riottosi di fronte ai “nuovi arrivati”. Ma ancora di più lo è perché sancisce quello che tutto il mondo sa e in qualche caso finge di non sapere: l’Emirato è l’unico regime al mondo che fa scomparire metà della sua popolazione e che per questo non può e non deve stare al cospetto delle nazioni civilizzate, checché ne pensino Cina e Russia, Turchia e Paesi arabi. Alcuni Paesi europei, che hanno accolto migliaia di fuggiasche e fuggiaschi dopo la caduta di Kabul, hanno anticipato la sentenza della Corte di giustizia: Svezia, Danimarca e Finlandia concedono lo status di rifugiate alle esuli afghane in modo quasi automatico. Anche l’Italia ha adottato una prassi simile, e non solo per le afghane, ma anche per le donne provenienti dal Tigrai, dalla Somalia o dall’Iran.
La sentenza è pure un colpo di piccone all’indifferenza generale per la drammatica situazione in cui versano le ragazze e le donne afghane. L’Europa, distratta dalle guerre sotto casa, sembra rimandare ad altro momento, ad altre opportunità, un’operazione di pressione che possa affiancare quella che sta portando avanti l’Onu, pur con scarsi risultati.
Proprio all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la settimana scorsa a New York, è maturata una iniziativa che mira a portare i taleban e la loro politica di apartheid di genere davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Onu. Il 25 settembre Australia, Canada, Germania e Olanda hanno firmato un documento in cui invitano gli studenti coranici a interrompere le violazioni dei diritti umani di donne e bambine. I primi quattro firmatari, a cui il giorno dopo se ne sono aggiunti altri 22 (tra loro: Spagna, Belgio, Cile, Irlanda – manca l’Italia), fanno riferimento alla Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione contro le donne (Cedaw) che nell’articolo 29 prevede, in caso di inottemperanza, il deferimento al più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite. « La nostra iniziativa non cambierà la situazione in Afghanistan ora – ha detto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock -. Ma darà speranza alle donne nel Paese. Vi vediamo, vi ascoltiamo. Parliamo per voi mentre voi siete costrette al silenzio». E, come ha stabilito ieri la Corte di giustizia Ue, vi accogliamo senza condizioni.