«La vecchiaia è per sé stessa una malattia», affermava nel II secolo avanti Cristo lo scrittore latino Publio Terenzio riferendosi ai malanni e alle privazioni fisiche tipiche della senescenza. Se questa considerazione è rimasta di fatto valida per oltre due millenni, oggi non è più così. Non solo perché la medicina, a partire dalla metà del secolo scorso, ha progressivamente consentito di allungare la durata della vita media (l’aspettativa di vita è aumentata di 20 anni rispetto agli inizi del Novecento) e di migliorare al contempo la qualità dell’esistenza, ma anche per il fatto che gli stessi geriatri – cioè i medici che si occupano di studiare e curare gli anziani – hanno proposto ufficialmente di innalzare l’età da cui far partire la vecchia di una decina d’anni: dai 65 ai 75 anni.
Sebbene la vecchiaia sia a tutti gli effetti la parte finale del ciclo vitale, non si può dire che sia legata solo all’età. L’età cronologica è un dato di fatto – ma ci sono fattori ben più importanti da prendere in considerazione –, come l’età biologica (che sovente è minore di quella anagrafica) e la condizione psicologica. Questa fase dell’esistenza corrisponde a una vera metamorfosi da interpretare e vivere nel suo significato in modo non diverso da quel cambiamento che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Lo afferma con convinzione lo psichiatra Vittorino Andreoli nella sua Lettera a un vecchio (Solferino, 2023) che invita a pensare a questa età dell’esistenza come legata a un nuovo stile di vita e a una nuova visione del mondo. Lo sostiene anche il monaco Enzo Bianchi nel suo saggio La vita e i giorni (Il Mulino, 2018), in cui definisce la vecchiaia una fase che, nonostante le sue ombre e le sue insidie, fa parte del cammino dell’esistenza: è arte del vivere che possiamo in gran parte costruire a partire dalla nostra consapevolezza per prepararsi ad allentare il controllo sul mondo e sulle cose, senza nulla concedere a una malinconica nostalgia, ma anzi trovando l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia verso le nuove generazioni.
È errato credere che il tema attorno a cui ruota l’esistenza del vecchio sia la morte e che la sua maggiore preoccupazione sia la malattia. Occorre invece che la società si convinca che egli ha bisogno di sentirsi utile, di avere un senso proprio nel presente e che la sua passata esperienza vissuta possa essere realmente percepita fonte di saggezza e non interpretata come nostalgia per il passato. Solo così si possono rimettere al centro i desideri e le caratteristiche degli anziani, evitando loro il dolore della solitudine, dell’esclusione e dell’abbandono, come ha più volte ribadito papa Francesco ricordando che la contrapposizione tra generazioni è un inganno e che lo “scarto” degli anziani non è né casuale né ineluttabile, ma frutto di scelte – economiche, politiche, sociali, personali – che non riconoscono la dignità della persona.
Proprio per evidenziare gli importanti contributi che le persone anziane possono dare alla società, e per aumentare la consapevolezza delle opportunità e delle sfide che l’invecchiamento pone al mondo di oggi, nel 1990 l’Assemblea generale delle nazioni Unite ha stabilito che ogni anno il 1° ottobre sia dedicato a festeggiare la Giornata internazionale delle Persone anziane, appena celebrata. Il loro impatto è sempre più marcato in ambito sociale: per la prima volta nella storia, nei Paesi occidentali, gli individui nati nella seconda metà del Novecento hanno ragionevoli probabilità di essere attivi, fisicamente e mentalmente, perlomeno sino a 85 anni. Oggi nel mondo quasi un miliardo di persone ha un’età pari o superiore ai 60 anni, superando globalmente giovani e bambini. Entro il 2030 questa quota arriverà a toccare il miliardo e mezzo.
L’invecchiamento della popolazione è destinato a diventare una delle trasformazioni sociali più significative del XXI secolo. Manca però una vera e consapevole riflessione antropologica, sociale e sanitaria su questo “invecchiamento di massa”, mentre prevale spesso un pregiudizio (il cosiddetto “ageismo”) che porta a disprezzare tutto ciò che è connesso alla vecchiaia. Certamente la vecchiaia è l’ultimo capitolo della vita, ma nessuno può sapere quanto duri. Entrare in questa fase dell’esistenza è però anche un privilegio: basti pensare ai tanti che hanno visto interrompersi la loro vita senza raggiungerla.
Certo con l’incalzare della vita il pensiero della sua fine non può essere dimenticato, e talvolta non è facile da accettare. Non ha senso però pensare alla vecchiaia solo come anticamera della morte. È invece uno spazio dell’esistenza da riconsiderare (anche alla luce della fede), da fondare sui bisogni personali e non su quelli guidati o suggeriti dalla società. In questa prospettiva una delle cose più immediate è rifiutare l’uso di termini eufemistici. Occorre mantenere la precisione, la dignità e la “bellezza” di alcune parole, che invece oggi la società fa percepire come inadeguate, preferendo utilizzarne altre per nascondere una realtà che cerca di ignorare o addirittura di negare. È più adeguato chiamare la vecchiaia con questo nome in luogo di altri apparentemente più neutri, come anzianità, terza o quarta età. Così come è più opportuno definire i vecchi con tale parola invece di quella ritenuta più appropriata e meno impattante di “anziani”.
La medicina stessa fornisce oggi una lettura diversa di alcune caratteristiche della vecchiaia. Gli inevitabili cambiamenti fisici del corpo legati al trascorrere del tempo possono essere gestiti attraverso un adeguato stile di vita che passa attraverso un’alimentazione corretta. La diminuzione della forza muscolare, in parallelo e in simmetria con la riduzione del suo uso, induce una fragilità che può essere bilanciata da un’attività fisica legata al movimento e, se possibile, alla pratica sportiva non stressante. Anche le difficoltà psicologiche del vecchio possono essere superate dalla consapevolezza del bisogno che ciascuno ha dell’altro: riscoprendo il legame d’amore coniugale e filiale, consolidando gli affetti con i parenti e gli amici. La diminuzione della memoria dell’anziano, che viene spesso vissuta e intesa come apriporta di un decadimento fisiologico di tutte le funzioni mentali o, ancora peggio, come l’inizio di un processo di involuzione cognitiva destinato a sfociare poi nella demenza, è interpretata oggi in maniera differente dalle neuroscienze. La memoria è testimone del vissuto individuale delle persone e la metamorfosi che si opera nella vecchiaia modifica anche la percezione del tempo e del vissuto individuale. Ecco perché spesso il vecchio ricorda bene episodi del passato che hanno avuto un rilievo significativo nella sua vita e dimentica invece fatti e nomi recenti che non sono importanti per lui in questa parentesi esistenziale. Il suo cervello non è più veloce come in gioventù perché è – come la memoria di un computer – molto ricco di dati, ma in compenso risulta molto più flessibile.
Con l’età è più probabile che si prendano decisioni giuste e si sia meno esposti a emozioni fuorvianti: è la famosa “saggezza” della vecchiaia. Il professor Monchi Ury, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Montréal, sostiene che il cervello dei vecchi funziona eliminando le attività superflue e la sovrabbondanza di informazioni, operando solo con le finalità più adeguate per risolvere i problemi da affrontare. Alcuni recenti studi evidenziano poi come il cervello umano raggiunga il picco della sua capacità intellettuale proprio attorno ai 70 anni. Il medico statunitense Fitzhung Mullan, direttore della George Washington University School of Medicine, in un recente articolo pubblicato sull’autorevole rivista The New England Journal of Medicine, dimostra che il cervello di una persona anziana è molto più efficiente di quanto si creda, perché dopo i 60 anni i vecchi sono in grado di utilizzare contemporaneamente in modo integrato e armonico entrambi gli emisferi encefalici. Ecco perché molte persone oltre questo limite di età risultano sovente più creative di altri soggetti più giovani.
«Mi diverto a invecchiare: è un’occupazione costante » ha detto a chi lo intervistava diversi anni fa a proposito della sua età lo scrittore e critico teatrale francese Paul Léautaud. Riprendendo la sua affermazione il neurologo Yves Agid dimostra nel suo libro Invecchiare? È divertente (Carocci, 2022) che invecchiare non dipende solo dal passare del tempo, ma soprattutto dal nostro cervello. La vecchiaia può e deve quindi rappresentare una tappa feconda della vita se a questa fase dell’esistenza si dà un senso nuovo, se si riscoprono ideali culturali e sociali, religiosi ed etici, se si mantengono e si consolidano conoscenze e affetti. Senza aspettare passivamente l’arrivo di una badante o pianificare l’ingresso in una Rsa.