(Ansa)
Sono ormai anni che segnaliamo il lento e costante scivolamento del nostro Servizio sanitario nazionale (Sss) – giustamente definito come la più importante opera pubblica mai costruita nel nostro Paese – verso un inesorabile declino che, nonostante importanti aree di eccellenza sia professionale sia tecnologica, comincia ad abbandonare al proprio destino milioni di cittadini che non riescono più ad accedere a servizi, sia preventivi sia diagnostici, assistenziali e riabilitativi. Quattro anni fa avevo preannunciato l’arrivo di una 'tempesta perfetta', in cui l’incrocio tra invecchiamento della popolazione, aumento delle malattie croniche e crisi economica con conseguente definanziamento della spesa pubblica avrebbero determinato l’impossibilità per i decisori pubblici di trovare abbastanza risorse per finanziare il sistema, per i manager di gestire organizzazioni sempre più complesse, per gli operatori sanitari di assistere i propri pazienti e per i cittadini di esigere prestazioni sanitarie finanziate con le loro tasse e che dovrebbero essere gratuite al momento del bisogno.
Tre rapporti usciti nelle ultime settimane confermano l’inizio della débâcle. Il Rapporto Osservasalute dell’Università Cattolica, il Rapporto Gimbe dell’omonima fondazione e quello del Censis sanciscono in modo inequivocabile le difficoltà di un Servizio sanitario boccheggiante, tra tagli, inadeguatezza gestionale e impossibilità di garantire servizi, in alcune regioni anche quelli essenziali. Che cosa abbiamo sbagliato? Perché nonostante i ripetuti allarmi non vi è stata alcuna azione correttiva? E, soprattutto, siamo ancora in tempo per evitare il peggio? Noi scienziati e addetti ai lavori non siamo riusciti a far capire alla politica – non tanto a quelli che si interessano di salute e welfare quanto a chi è responsabile di finanziarli (in primis ministero dell’Economia e Ragioneria generale dello Stato) – che considerare la sanità solo una voce di costo, facile da tagliare quando vi è bisogno di austerity, non è la strada ottimale per lo sviluppo e la prosperità del Paese. Certamente si dovrebbe essere attenti ai saldi di bilancio, non solo però guardando ai numeri ma anche a quello che c’è dietro, soprattutto se i tagli significano meno medici, meno infermieri, meno servizi e più ma-lati, più sofferenza, più disperazione. Se si guarda all’attuale discussione tra Stato e Regioni e alla bozza del nuovo Patto per la Salute non c’è da essere ottimisti: sia l’approccio sia le tempistiche non sembrano all’altezza della sfida.
Che cosa ci attende dunque all’orizzonte? Attraverso l’utilizzo di modelli matematici è possibile già da ora prevedere cosa si verificherà in futuro. Ad esempio, per quanto riguarda il numero delle persone con multicronicità – cioè coloro che soffriranno nel prossimo futuro di almeno tre malattie croniche –, proiettando la loro prevalenza sulla struttura per età della po- polazione prevista per i prossimi venti anni, ci si attende un numero di multicronici pari a quasi 13 milioni nel 2024 e di oltre 14 milioni nel 2034, pari rispettivamente al 20,2% e 22,6% della popolazione. Particolarmente rilevante il fenomeno tra gli anziani: nel 2024, infatti, a livello nazionale tale condizione interesserà circa 9 milioni di individui ultra sessantacinquenni, numero che salirà nel 2034 a circa 11 milioni. Lo scenario, quindi, ci mostra per il futuro una situazione di crescenti bisogni da parte di una popolazione sempre più anziana e disabile. Se l’incidenza – ovvero, il numero di nuovi casi – di malattie croniche registrate non dovesse rallentare o diminuire nel tempo, l’aumento assoluto della richiesta di assistenza sanitaria richiederebbe un inevitabile incremento della spesa al fine di garantire adeguati livelli di salute. Purtroppo i segnali che possiamo vedere oggi ci indicano che questa è una situazione insostenibile dal punto di vista economico e finanziario. Questa situazione di insostenibilità è vissuta da tutti i Paesi industrializzati e non è certo stata causata dalla crisi economica del 2008. Il sistema era infatti insostenibile già prima della crisi, che ha solo amplificato e reso più evidente il problema.
Tra gli Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è stata sicuramente uno dei Paesi più colpiti dalla recessione. A oggi il nostro risulta essere l’unico tra i Paesi più industrializzati a non aver ancora recuperato i livelli di Pil del 2007. Inoltre a livello dei Paesi Ocse più avanzati l’Italia si è dimostrata uno dei Paesi con il sistema di aiuti ai redditi meno efficace in assoluto: Italia e Spagna sono gli unici Paesi dove nel periodo della crisi (2007-2012) alla riduzione del Pil si è legata una pressoché equivalente riduzione del reddito disponibile delle famiglie. Al contrario, in Paesi come Regno Unito, Finlandia e Danimarca la recessione del Pil è stata accompagnata da un aumento del reddito disponibile, segno di un sistema di ammortizzatori sociali meglio funzionante. In effetti, in Italia la crisi ha aumentato anche la povertà assoluta: tra il 2011 e il 2012 si è registrato un vero e proprio balzo nel numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà, salito rispettivamente del 33,0% e del 41,0%, con un ulteriore peggioramento nel 2013 e nel 2018. Molti studi hanno dimostrato che il livello di salute di una popolazione è fortemente correlato con la sua condizione economica. Pertanto, se la fase di crisi che stiamo attraversando si prolungherà nel tempo (e purtroppo ci sono importanti elementi per ritenere che non sia congiunturale ma abbia forti componenti strutturali, in particolare in Italia), ci si dovrà attendere un peggioramento generale delle condizioni di salute nel nostro Paese. E allora che faranno gli italiani per curarsi?
Non volendo neanche prendere in considerazione l’idea che vi sia un disegno occulto di smantellamento e privatizzazione del Ssn, il suo 'piano di salvataggio' dovrebbe passare almeno attraverso le seguenti tre azioni: 1) rimodulare le prestazioni erogate gratuitamente a tutti i cittadini – i cosiddetti Lea, Livelli essenziali di assistenza – in base a rigorosi criteri scientifici, destinando alla spesa privata quelli a basso valore; 2) ridefinire i criteri della compartecipazione alla spesa sanitaria e le detrazioni per spese sanitarie, tenendo conto anche del valore delle prestazioni e attuando al più presto un riordino legislativo della sanità integrativa; 3) realizzare concretamente un piano nazionale della prevenzione. Lo faremo? Ai posteri l’ardua sentenza.
Docente di Igiene e medicina preventiva all’Università Cattolica di Roma
già presidente dell’Istituto superiore di sanità