Sono sinceramente convinto che una legge ampiamente condivisa sulla fine della vita umana sia, nell’Italia di oggi, opportuna bioeticamente e necessaria biopoliticamente (ne ho scritto diverse volte sulle colonne di questo giornale). E non mi turba troppo nemmeno l’espressione ' testamento biologico': è tutt’altro che corretta, ma ciò che conta non è il colore o la grafica dell’etichetta che si vuole incollare su di una scatola, quanto il contenuto di questa. Quando però leggo un articolo, scritto per perorare un 'referendum sul diritto di morire', come quello che Luca e Francesco Cavalli-Sforza hanno pubblicato su Repubblica del 2 gennaio (ma il nome che conta mediaticamente è quello del padre, Luca, illustre genetista), vengo preso da un profondo sconforto: se questo è il livello della riflessione su questioni cruciali come quella della fine della vita umana è forse meglio fermare ogni dialogo, imporre a tutti (me compreso, ovviamente) adeguate pause di riflessione, esigere da tutti i bioeticisti un severo sforzo di onestà intellettuale. Infatti, con chi ragiona come ragionano i due Cavalli-Sforza è davvero difficile intendersi, non solo in merito ad una possibile, saggia legge sulla fine vita, ma perfino sui più elementari concetti di bioetica: come dialogare con chi ritiene «ridicole» le opinioni altrui (quelle di chi, come ad esempio il sottoscritto, non riesce a trovare un fondamento a un preteso «diritto di morire»), con chi si inventa ( perché questa è la parola esatta) che i propri avversari ritengano «reato» il suicidio, con chi qualifica alla stregua di un «sadismo senza nome» la doverosa assistenza ai malati in stato vegetativo persistente (da essi scorrettamente definiti in «coma vegetativo permanente»)? Da due scienziati ci si aspetterebbe un linguaggio corretto, un’argomentazione lucida e fredda e soprattutto la più rigorosa competenza nella materia. Così non è per i due Cavalli- Sforza, che sono talmente convinti di poter sostenere che ogni uomo abbia un diritto insindacabile a «farla finita» (!) «qualunque fosse il motivo del suo gesto» (!), che non solo sorvolano lievemente sulla plurisecolare riflessione filosofica (e non esclusivamente religiosa!) sul suicidio, ma non dimostrano la benché minima attenzione sulla specificità bioetica che la questione della disponibilità della vita è venuta ad assumere nel nostro tempo e che coinvolge il carattere ippocratico dell’etica medica (e in particolare la 'funzione di garanzia' a favore della vita che i sistemi sociali moderni assegnano ai medici) e la distinzione complessa, ma necessaria, tra cessazione dell’accanimento terapeutico e eutanasia. I Cavalli-Sforza sono – o almeno sembrano – beatamente ignari della complessità di queste questioni, così come sembrano del tutto ignari dell’uso statisticamente molto limitato che le persone fanno del testamento biologico nei Paesi in cui esso è stato legalizzato: casi tragici come quelli di Eluana si ripresenteranno sempre, perché la decisione di lasciare dichiarazioni anticipate di trattamento viene di fatto assunta solo da una piccola minoranza di persone. Per ovviare a questa difficoltà (lo dimostra l’esperienza bioetica di altri Paesi), molti che (come i Cavalli-Sforza) si impegnano con tutte le loro forze per dare lo statuto di diritto umano fondamentale al principio di autodeterminazione eutanasica suggeriscono poi, con elegante noncuranza, di far valere, in mancanza di dichiarazioni espresse di fine vita, l’opinione di un fiduciario, di un tutore o comunque di un 'decisore', che ritenga di saper 'interpretare' quello che il soggetto deciderebbe per se stesso, se fosse ancora in grado di decidere. Si giunge rapidamente in tal modo a dare concretezza al peggior incubo della post-modernità, quello di una definitiva burocratizzazione della fine della vita umana. Sono consapevoli di tutto questo i Cavalli-Sforza? Sono consapevoli che il desiderio narcisistico di far conoscere al pubblico le loro opinioni bioetiche, peraltro fragilissime, sta mandando in fumo il prestigio che Luca Cavalli-Sforza si è conquistato in anni di duro lavoro scientifico? Sono consapevoli, scrivendo quello che scrivono, che portano acqua ad un solo mulino, quello di coloro che ritengono ampiamente provato che tutto il dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento abbia una sola, autentica e soprattutto ipocrita finalità, quella di legalizzare l’eutanasia?