Omicidio del consenziente: l’errore è il referendum e non queste parole
sabato 5 febbraio 2022

Una lettera preoccupata e delicata pone un problema serio: usare parole rispettose di umanità e fede anche nel dibattito sulla cosiddetta eutanasia. Giusto. Così come è giusto usare parole che dicono ciò su cui si voterebbe in caso di referendum. Prezioso ricordare magistero e testimonianza di Pio XII e del cardinal Martini

Caro direttore,
in diversi titoli e sottotitoli dati agli articoli di “Avvenire” sul tema dell’eutanasia, e del referendum che si vorrebbe tenere sulla questione, continua a comparire l’espressione omicidio del consenziente: non so se sia linguaggio tecnico, però come semplice lettrice vorrei dire che mai essa dovrebbe comparire “a vista”, ma solo forse all’interno di chiarificazioni, di distinguo su accanimento terapeutico, terapie palliative (in corsi di volontariato ho sempre sentito dire da esperti che non è vero che sia sempre possibile “addomesticare” il dolore). Non esiste principio astratto che possa includere l’infinita varietà delle situazioni del vivere e del soffrire (sappiamo quanto sia pericoloso l’astratto dei no-vax!) e troppe volte l’ideale dell’accompagnamento e della cura anche quando non si può guarire riempiono più i desideri che la realtà. Usare un linguaggio più sfumato non è negare la realtà, anzi: reale vuol dire concreto, ma anche regale e cioè rispettoso della dignità del soggetto. Forse dovremmo ricordarci di più della lucidità del cardinal Carlo Maria Martini e troveremmo un linguaggio più adatto alla prospettiva di fede e rispettoso della nostra comune umanità.
Giuliana Babini, Spello (Pg)


Gentile e cara amica, sono totalmente d’accordo con lei sul fatto che il linguaggio che usiamo dovrebbe essere sempre «rispettoso della nostra comune umanità». E, da cristiano, penso anche che sia giusto cercare di trovare parole che non suonino talmente taglienti e dure da sfigurare la nostra fede e da fare, addirittura, la caricatura di Dio. Ho imparato, e capito sempre meglio, che il «sì sì, no no» evangelico (che ogni tanto qualcuno mi intima di usare, ai più diversi propositi, perché amo la chiarezza, ma non la clava) comincia da questo non sempre facile rispetto o non comincia affatto.
Ci sono, però, parole che sono esattamente come sono, che non possono essere considerate solo “forma” imposta (magari per polemica), perché sono consequentia rerum, cioè dicono la realtà. Parole utili, insomma, che servono a capire la sostanza e la vera proporzione di una vicenda, di un problema, di una proposta. Il cosiddetto referendum sull’eutanasia che i promotori avrebbero voluto intitolare anche «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole e informato» in realtà è solo e soltanto contro una parte del Codice penale e il suo titolo, per decisione della Cassazione, è semplicemente e correttamente questo: «Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)». Omicidio del consenziente non è una espressione tecnica, è il reato che si intende quasi del tutto depenalizzare. Che è appunto l’uccisione di una persona che è (o viene presentata come) d’accordo con questo gesto comunque terribile. Non si tratta, dunque, di un principio astratto, ma di un atto e (attualmente) di un reato preciso: l’omicidio del consenziente, appunto. Se il referendum abrogativo fosse ammesso – la Corte costituzionale deciderà il 15 febbraio – e se il quesito proposto venisse approvato, l’Italia sarebbe l’unico Paese al mondo ad avere una normativa radicalmente amputata su un fronte così delicato e, umanamente prima che penalmente, decisivo. È bene aver chiaro che se si tenesse la consultazione, non si voterebbe sull’accanimento terapeutico (che nessuna legge impone e che la morale, laica e cattolica, rigetta) e tantomeno sulla (benedetta e da meglio applicare) legge sulle cure anti-dolore o palliative. Per questo spero di non vedere mai nel nostro Paese un simile “vuoto” normativo. E le confermo che non sono sbagliate le parole «omicidio del consenziente», è sbagliato fare un referendum contro il reato di «omicidio del consenziente».
Questo non significa non cogliere i problemi che tecniche mediche sempre più avanzate pongono sia sul piano della tutela dell’integrità personale della vita umana sia su quella della dignità integrale del malato e del morente. L’«infinita varietà del vivere e del soffrire» interroga anche me. E mi commuove. Come tanti, penso quasi tutti, l’ho sperimentata accanto a persone care. E so bene, purtroppo, che può darsi in casi estremi un dolore non del tutto “addomesticabile” o persino indomabile. Lo so, perché l’ho accompagnato e assistito un dolore così, nelle ultime ore di mia madre, e quel dolore è stato anche mio, di mia sorella e dei miei fratelli. Ci ha straziati di più, in uno strazio già immenso, ma non ci ha proibito nessuna possibile cura, nessun necessario lenimento, nessuna preghiera e nessuna tenerezza.
Non mi permetterò mai di giudicare il dolore degli altri, ma l’uso del dolore degli altri sì. E dico chiaro e tondo che non sono d’accordo, soprattutto se l’esito è la messa in questione di un principio di civiltà grandioso che dice che quando non si può guarire si può sempre curare e accudire, per amore e per scienza, anche con mezzi che nel combattere il dolore abbreviano la vita della persona sofferente. È saggezza umana, ed è magistero della Chiesa sin dalla metà del secolo scorso. Parola di papa Pio XII, certamente non meno lucida di quella del cardinal Martini e certamente alla base anche della profonda riflessione su questo tema del grande biblista e arcivescovo di Milano. La cui morte, nel 2012, alcuni fautori dell’eutanasia tentarono di utilizzare, sino a mistificarne le circostanze. Con rispetto e fermezza toccò pure a me, su queste pagine che già dirigevo, aiutare a rimettere le cose a posto. Per rispetto del buon giornalismo e della buona politica, della nostra comune umanità e della fede di cui Carlo Maria Martini è stato testimone e maestro.


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