Maria Silvia Bazzoli ricorda l’importante precedente della norma che trent’anni fa offrì rifugio nel nostro Paese a chi rifiutò di contribuire al massacro in corso nella ex Jugoslavia. Giusto, umano e costituzionale ripetere con russi e ucraini quella scelta e un gesto di rispetto, di accoglienza e di valorizzazione
Gentile direttore,
desidero dialogare con lei su un tema che le è molto caro, in difesa del quale lei indossa da settimane un “nastro verde” simbolo della resistenza nonviolenta russa alla guerra d’invasione in Ucraina decisa da Vladimir Putin. Le azioni simboliche sono importanti, ma io so che dobbiamo affiancare a esse iniziative concrete, finalizzate alla protezione di disertori, obiettori e renitenti alla leva in Russia. Ma anche in Ucraina. L’associazione Giuristi democratici si è fatta avanti con un appello a difesa del diritto all’«obiezione di coscienza» in Ucraina, un diritto che dovrebbe essere garantito da parte del governo Zelenszky. Personalmente, credo che si possa compiere un passo ulteriore, chiedendo al nostro governo e ai nostri parlamentari una legge che garantisca il diritto di asilo nel nostro Paese a disertori, obiettori di coscienza e renitenti alla leva dei due Paesi, così come venne fatto nel 1992 in occasione della guerra nella ex-Jugoslavia. Mi riferisco all’articolo 2 bis della legge 390 con il quale, in armonia col principio del ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione, si impegnava l’Italia «a garantire comunque l’ingresso e l’ospitalità ai giovani cittadini delle Repubbliche ex Jugoslave che siano in età di leva o richiamati alle armi, che risultino disertori o obiettori di coscienza». Se l’Italia, trent’anni fa, ebbe il coraggio di promuovere una norma nella quale venivano riconosciute la diserzione e l’obiezione di coscienza come valori da proteggere, assicurando protezione a tutti coloro che rifiutavano di farsi carne da macello e di uccidere i propri fratelli, amici, vicini di casa e avversari in nome di nuovi nazionalismi e folli idee di conquista, perché non farlo anche oggi? Personalmente credo che dovremmo chiederlo e pretenderlo con forza e convinzione, non solo al nostro Governo, ma all’Europa intera. “Diserzione” e “obiezione di coscienza” sono parole scomode, ma quanto mai necessarie: in una società imbevuta di cultura e valori guerrafondai, la prima viene ancora largamente considerata un atto di codardia, e la seconda – riconosciuta in Italia pochi decenni fa dopo anni di lotte – è ancora guardata con sospetto. Altro che vigliaccheria! Diserzione e obiezione di coscienza costituiscono atti di estremo coraggio. Perché ci vuole un coraggio da leoni per sottrarsi all’imposizione delle armi, su qualsiasi lato del fronte ci si trovi, e rischiare la vendetta dei propri commilitoni, la Corte marziale, gli insulti della propria gente e la condanna dell’opinione pubblica. Per andare dove, poi? A questa domanda il nostro Paese seppe dare una risposta straordinariamente lungimirante allo scoppio di un’altra guerra. Godiamo di un precedente importantissimo, a cui nessuno fa riferimento. Certo, finché abbiamo politici, giornalisti e opinionisti che ci raccontano che in Europa una guerra così non la si vedeva da 80 anni, dimenticandosi dell’assedio di Vukovar e di Sarajevo, del genocidio di Srebrenica, delle bombe della Nato sganciate su Belgrado, dei 4.000.000 di profughi, dei 140.000 morti, delle 20.000 donne stuprate nei territori della ex-Jugoslavia, come possiamo pretendere che qualcuno si ricordi della Legge 390 del 24 settembre del 1992? La pace va nutrita di parole e di azioni. La protezione di renitenti alla leva, disertori e obiettori di coscienza, su entrambi i fronti, russo e ucraino, costituisce un’azione concreta fondante. Un’azione rivoluzionaria che se promossa su vasta scala può diventare una “bomba” e incrinare, il castello ideologico fondato sull’unica via della «resistenza armata».
Maria Silvia Bazzoli
Proprio così, gentile e cara dottoressa Bazzoli, la pensiamo allo stesso modo: «La pace va nutrita di parole e di azioni». Per questo lei si spende a quel che so in molte attività culturali, per questo qui ad “Avvenire” facciamo il giornale che facciamo: senza nascondere nulla delle guerre in corso (dico sempre che le guerre cominciano a finire solo se e quando riusciamo a “vederle”) e dando valore a tutti coloro, uomini e donne, che si battono senz’armi per sovvertire la logica devastante e assassina della guerra. Davanti all’insensatezza atroce della guerra d’Ucraina, riaccesa al calore bianco dall’invasione russa, lo facciamo, esattamente come in tutti gli altri casi in cui l’umanità si massacra: in Yemen, in Sud Sudan, in Siria, in Libia... e l’elenco potrebbe continuare, come stiamo dimostrando, ogni giorno sin dalla nostra prima pagina con la rubrica ”Non solo Kiev“ dedicata a tutte le guerre che i nostri politici e la nostra opinione pubblica italiana ed europea rifiutano o fanno semplicemente fatica a riconoscere come tali. Stavolta, però, con la guerra d’Ucraina è diventato straordinariamente difficile anche solo dire che la guerra è un male assoluto e – come chiede papa Francesco, e uomini di limpide azioni di pace come Gino Strada hanno invocato per tutta la vita – perciò va «abolita». Adesso, non domani. Da dove cominciare? Anche dalle porte spalancate a chi rifiuta di fare la guerra e di ammazzare e distruggere. Il precedente delle braccia aperte ai disertori e obiettori delle guerre nella ex Jugoslavia che lei richiama è davvero importante. Ed è giusto, umano e costituzionale ripetere con russi e ucraini quella scelta di solidarietà e di asili, un concreto gesto di rispetto, di accoglienza e di valorizzazione. Non mi stanco di ripeterlo: gli eroi sono quelli che non uccidono.