Bisogna sentirsi figli per essere padri. E vale tanto ascoltare (e ben pensare)
sabato 30 luglio 2022

L’umile e bellissimo primo messaggio di un vescovo eletto, incentrato sulle dimensioni filiale e dell’ascolto, non convince un lettore che usa espressioni nette. In tantissimi l’abbiamo invece accolto con gratitudine. Si tratta di verità limpide che proprio Gesù, il Figlio, ha testimoniato porgendo orecchio a tutti...

Gentile direttore,
il neo-arcivescovo Ivan Maffeis si presenta alla sua Diocesi di Perugia con queste parole: «Vengo fra voi per mettermi in ascolto di questa preziosa terra di santi e di bellezza, della quale chiedo con umiltà di divenire figlio». Negli ultimi anni si nota la tendenza di molti pastori a presentarsi così, come ascoltatori della gente. Onestamente mi suona stonato. Gesù, prima di salire al Padre, non ha raccomandato agli apostoli di ascoltare la gente, ma l’esatto contrario: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli (...) insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». Del resto, lo stesso papa Francesco ha più volte sottolineato che l’essenza del mandato pastorale è il kerygma, cioè l’annuncio dell’Amore di Dio manifestato in Gesù Cristo: «Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno», per citare una delle frasi ricorrenti del Papa. E l’evangelista Giovanni ci ricorda che «il Cristo conosce quello che c’è nel cuore dell’uomo». Per questa semplice ragione Gesù non si è mai messo in ascolto della gente, già conosceva il loro cuore, che alla fine è lo stesso in tutti i tempi e a tutte le latitudini. Mi lasci dire che anche il presentarsi come “figlio” della gente suona stonato, proprio perché la paternità è da sempre caratteristica peculiare dei Vescovi. Certo, un pastore deve anche saper ascoltare, ma il suo compito essenziale è quello dell’annuncio di Cristo morto e risorto, di far conoscere il messaggio cristiano a una società sempre più secolarizzata che non conosce più il fondamento della fede.
Carlo Dionedi, Piacenza

«Abbiamo bisogno di padri non di figli». Mi colpisce molto la sua affermazione, gentile signor Dionedi. Ne capisco l’intenzione buona, eppure ammetto che mi suona particolarmente strana sulla bocca di un cristiano, cioè di uno che ha incontrato il Figlio e, per quanto può e sa, si è messo in cammino dietro di Lui. Ma mi fa effetto leggere da un uomo innamorato della Bibbia – so che lei lo è –, anche quel suo categorico «Gesù non si è mai messo in ascolto». Ma senza l’ascolto, non ci sarebbe neanche l’annuncio... Perché senza ascolto non c’è vera comunicazione, e papa Francesco è tornato a ricordarlo a noi giornalisti (ma non solo a noi) proprio in questo 2022. Mentre lo scrivo, mi vengono in mente gli innumerevoli passi dei Vangeli che raccontano l’attenzione, umile e generosa di Gesù, che camminava per le strade del suo tempo prestando orecchio a tutti: alle domande degli amici e di quanti lo cercavano per curiosità o interesse, agli interrogativi di chi aveva potere e intenzioni insidiose e all’innocenza dei bambini, e sempre alle invocazioni di coloro che in ogni tempo sembrano non avere alcuna speranza di considerazione e di soluzione: malati, storpi, indemoniati, poverissimi, donne giudicate più o meno virtuose, uomini poco stimati o addirittura condannati dalla giustizia terrena...
Detto questo, gentile lettore, voglio aggiungere che conosco piuttosto bene don Ivan Maffeis, sacerdote e giornalista. Ho potuto lavorare con lui nei suoi anni alla Cei, e ha fatto parte del consiglio di amministrazione del nostro giornale. Sono felice che sia lui l’arcivescovo eletto di Perugia-Città della Pieve, successore del cardinale Gualtiero Bassetti. So che è un uomo della Parola e dell’ascolto, della contemplazione e dell’azione: come altri consacrati a Dio, e come altri bravi cristiani e brave cristiane, ma con un tratto speciale, tutto suo. So pure che il vescovo eletto Ivan sa essere padre perché vive la fraternità e perché non dimentica di essere stato e di essere ancora figlio. Credo che sia per questo che nel momento in cui ha accettato di venire inviato come Pastore in una terra di splendente tradizione, ha annunciato con semplicità di voler imparare a esser figlio di quella storia di fede e di civiltà. Una parola-gesto davvero potente e bella, che io ho inteso e apprezzato – da umbro che un po’ conosce e ama la storia umana e cristiana del Trentino da cui don Ivan Maffeis proviene e che ha avuto la gioia di crescere ad Assisi in cammino con quel grande vescovo e grande trentino che è stato Giuseppe Placido Nicolini. Una parola-gesto che, al pari di tantissimi altri di noi, ho riconosciuto come saggia e profondamente evangelica.
Tutti noi, caro amico, non dovremmo smettere mai di imparare ad ascoltare e a capire e mi permetto di dire che dovremmo avere anche la saggezza di... “ben pensare” ciò che ascoltiamo. E questo non solo quando a parlare è un padre vescovo, ma negli scambi di idee che non sempre diventano dialoghi, e che sempre segnano la nostra quotidianità. La ringrazio con sincerità, signor Dionedi, per avermi spinto ad articolare appunto in dialogo con lei questa riflessione semplice, e spero non inutile. Lo spero così tanto che ne faccio il mio augurio a tutti i lettori e a tutte le lettrici per il tempo d’agosto che comincia domani e che, nonostante il gran lavoro che la cronaca continua a imporre, cercherò di vivere a mia volta “in ascolto”. Rinunciando (se resisterò) a rispondere alle lettere che mi inviate e che continuerò a leggere e a scegliere per questo spazio d’Avvenire.



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