Gentile direttore,negli ultimi anni del 1800 mio nonno portò le sue braccia oltre Oceano Atlantico. Con tre figli piccoli, e un mestiere da bracciante agricolo, forse allora non aveva altre possibilità. Negli Stati Uniti d’America lo aspettava un "padrone", che aveva anche anticipato i soldi per il viaggio. Venti anni dopo è toccato a mio padre, partire per mantenere una famiglia sempre più numerosa. Stessa destinazione, stessa procedura. Se fosse poi toccato anche a me, penso che non avrei avuto lo stesso coraggio. Per questo mi domando ora quanto coraggio abbia questa gente – questi bambini, queste donne, questi uomini… – che dopo mesi di peregrinazioni, di umiliazioni, di sevizie, con il rischio concreto di affogare nel Mediterraneo, arriva qui da migrante dove sembra che quasi nessuno li voglia. Rispetto tutte le opinioni, ma so che è con questo coraggio che si salverà l’Europa.
Lino Bianco
Grazie, gentile signor Bianco, per aver spinto – sul filo di una viva memoria familiare – il discorso sull’immigrazione in Europa in una prospettiva che va oltre il dovere del soccorso al profugo e a chiunque si trovi in pericolo. Dovere – lo ripeto ancora una volta – che solo per cinismo e per opportunismo politico si può mettere in dubbio, ma che resta umanamente e, ancor più, cristianamente indiscutibile. Sono d’accordo con lei sul fatto che l’Italia e l’Europa si "salveranno" grazie anche al coraggio e alla fame di futuro degli immigrati che ci raggiungono nel nostro opulento spazio comune e nel nostro complicato tempo di crisi e di disperanza. E penso pure che si tratti della metà esatta del coraggio necessario per fare l’impresa. L’altra metà tocca inesorabilmente a noi. Gli immigrati, infatti, possono caricarsi (e già si caricano) di tanti lavori che noi non arriviamo o non vogliamo più fare e ne mantengono in piedi altri che invece vogliamo fare (nei giorni scorsi il Censis lo ha spiegato molto bene, con la nuda forza dei numeri, anche a chi non vuol accettare questa realtà). Possono e debbono metterci una trasparente disponibilità a vivere dentro le regole che si siamo dati e secondo le libertà responsabile che abbiamo conquistato. Ma c’è una parte del lavoro non possiamo delegare in alcun modo, e neppure disertare. Nessuno può darsi al posto nostro il coraggio (e la lucidità) che servono per "accogliere" e "integrare" nel senso vero e pieno dei termini persone provenienti da altre culture e altri contesti sociali. Nessuno può impegnarsi in vece nostra per dare senso comune (e di adesione) all’incontro dei nuovi europei immigrati con la nostra società e la nostra cultura. Queste sono le premesse perché, insieme, riusciamo a dare una scossa a un Vecchio Continente che può continuare a essere se stesso solo se torna a generare vita e inclusione. In un incontro tra persone – serio come quello che si realizzò tra suo nonno e suo padre emigranti e i loro datori di lavoro americani – che avvenga lungo una via tracciata secondo la regola base del rispetto reciproco e sviluppata attraverso legge, lavoro, casa, istruzione, responsabilità, libertà, pace... Una via che si regge sulla saggia simmetria tra diritti e doveri, che si realizza dentro la cornice dei valori che fondano la convivenza civile e la democrazia. E che conduce a ribadire senza tentennamenti, in modo fattuale e non solo in termini di principio, la condizione di dignità e di eguaglianza di tutti i cittadini. Nulla di ciò che concepiamo per noi stessi e i nostri figli, può e deve essere negato a coloro che vivono, lavorano, studiano e pagano le tasse con noi e partecipano, ancora al nostro fianco, al cantiere in cui continuiamo a costruire la nostra patria comune. Questo fa "cittadinanza", e va riconosciuto. Per noi cristiani, c’è poi un compito ulteriore, che – come dice papa Francesco – è quello di «attrarre». Attrarre, con la ricchezza spirituale e la carità fraterna che sappiamo esprimere, a una speranza più grande. Che non dà risposta solo alla miseria economica e dell’insicurezza personale, ma cambia la vita.