L'attentato di Genova contro Roberto Adinolfi, amministratore delegato dell’Ansaldo nucleare, la gamba trapassata da una pallottola, è ora scritto sulla copertina di un fascicolo penale col nome di «lesioni aggravate». Ma la parola che inquieta, che non si vorrebbe neppure pensare, e che sta già dentro il brivido delle supposizioni attendibili, è un’altra. È quell’altra che riaffiora dalla memoria insanguinata di questa città, dalle immagini d’archivio dello scooter che fugge con i killer, la pistola ancora protesa, o del corpo a terra della vittima con la gamba spezzata. Terrorismo. I volti di Castellano, di Floris, di Rossa, di quei tanti altri feriti o uccisi. A Genova, città delle grandi fabbriche, delle forti tensioni lavorative e delle lotte operaie, delle grandi speranze e delle aspre difficoltà.Ci facciamo forza dicendo che è solo un’ipotesi, senza niente di sicuro. Che il terrorismo è acqua passata, storia chiusa dentro il periodo che fu chiamato «notte della Repubblica»; e una generazione intera è trascorsa, sì che la nuova non ne ha neppure nozione. Che domani 9 maggio, come tutti gli anni, celebriamo la «Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi», con dolore ma asciugandoci gli occhi nel sentirci fuori pericolo. Eppure, nel braciere spento qualche favilla è pur tornata a divampare, e a uccidere; D’Antona nel 1999, Biagi nel 2002, Petri nel 2003. E frattanto i fermenti dell’anarchismo insurrezionale potrebbero aver subito la tentazione di una diversa violenza.Inquietudini. Ma non è la strategia investigativa che ci tiene col fiato sospeso. È il bisogno di capire il senso di questo allarme venuto a scoppiare dentro una situazione sociale tesa, incupita, rabbiosa, depressa. La parola che ci accompagna ogni giorno è «crisi». Qualcosa si rattrappisce, si svuota, si fa più arido; non penso alle tasche soltanto, mi interessa il cuore, cioè la fierezza della propria dignità e la speranza d’un futuro che ci appartiene. Sento nel mondo del lavoro, schiacciato fra precariato e disoccupazione senza ricerca, una conflittualità che credono domata ed è invece compressa, indurita, e dolente per gli «uomini del lavoro» indeboliti a stremo. Guardo la singolarità del governo tecnico, necessaria a tirarci fuori dal rischio di collasso, accolta come si invoca un chirurgo contro una cancrena, ma ora con i rancori di molti che si sentono sotto i ferri senza anestesia. Sento la classe politica svalorizzata nell’opinione comune, oggetto di disgusto e di disprezzo, e nondimeno riluttante a un soprassalto di dignità, di rinuncia ad assurdi favori, di moderazione. Sento il disamore e la delusione dell’antipolitica, con i suoi urli e le sue impotenze, le sue giustificate invettive e i suoi rozzi e volgari vaniloqui. Sento che qualcosa si scolla, dentro il disegno della «solidarietà sociale» con cui la Costituzione ha dipinto (o sognato) il nostro ritratto di popolo. Ci stiamo dando le spalle.In queste brecce di reciproca solitudine rabbiosa l’idea del terrorismo può deporre il suo veleno. Perché non proviamo a volerci un po’ di bene, ad aiutarci? Abbiamo perduto l’idea di «bene comune»? È nella stagione debole, nella povertà relazionale, nella conflittualità infinita, nella dimissione della speranza, il terreno opportuno per questo seme di violenza e di sangue. Perché il terrorismo, come s’è rivelato nella nostra tragica storia di ieri, è politicamente e socialmente un delirio; una via bloccata, una attività disperata, una suggestione socialmente suicida. Scamparne si può, ma insieme, con il coraggio del bene.