I fedeli sventolano l'immagine del Papa allo Stadio nazionale di Singapore - Ansa
Ma a noi, che viviamo “da questa parte” del mondo e siamo abituati a pensarci come il centro, cosa dice il viaggio di papa Francesco “dall’altra parte” del pianeta? Che messaggio hanno per noi le parole e i gesti offerti dal Successore di Pietro a popoli e culture lontanissime dalla nostra quotidianità, dai nostri ritmi, dalla nostra sensibilità? Il primo, e più evidente, messaggio che questa lunga visita ci offre è proprio l’invito a non considerarci il centro del mondo. I poco meno di 200 conflitti nelle diverse aree del globo sono già l’espressione più aspra e incisiva di un cambiamento degli equilibri tra potenze, nel senso di una sempre maggiore multilateralità dei rapporti internazionali.
Si è già detto molte volte e in molte analisi che questo scenario è una vera e propria sfida per l’Europa e l’Occidente in generale: in un mondo in cui il baricentro si parcellizza, la nostra cultura, la nostra storia, il nostro patrimonio sociale e politico cosa ha da dire e offrire? In questo senso papa Francesco è un vero e proprio profeta, un testimone, un’icona vivente che fa da sentinella al contributo che il vecchio “centro del mondo” può e deve a tutti costi continuare a offrire. A due condizioni però: che esso sappia riconoscere e valorizzare tutto quel bagaglio di principi universali che il Vangelo ha piantato nella sua identità più profonda e che ammetta il fatto che il “suo” modo di vivere quei principi non è l’unico possibile. Quindi andando là, ai confini, il primo messaggio che Bergoglio ci riporta a casa è questo: basta pensarci come il centro, perché ogni periferia è centro, alla luce del messaggio del Risorto, del Figlio di quel Dio che si presenta a noi come padre dell’intera umanità, e ogni centro è periferia.
La retorica dei “confini del mondo”, che il Papa stesso ha usato presentandosi in piazza San Pietro subito dopo l’elezione nel 2013, funziona solo come monito per arrivare a ricalibrare il pensiero in senso cattolico, ovvero, etimologicamente parlando, universale.
C’è un altro potente messaggio che a noi, qui al “centro del mondo” (e per tanti forse anche dell’universo), il viaggio di Francesco in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Est e Singapore, consegna con evidenza: la fede cristiana, il Vangelo, la Chiesa hanno a che fare con ogni dimensione dell’umana convivenza. E hanno ancora molto da dire e da dare nella costruzione di una civiltà fondata sulla dignità, sulla libertà, sulla partecipazione. Se il tema delle “periferie” si tiene in qualche modo con la storia di questo pontificato, la questione dell’incisività dei cristiani nel mondo ha molto a che fare con l’impegno e gli sforzi che le Chiese locali mettono in campo ogni giorno per portare sul territorio, dentro le case, nelle istituzioni quei valori irrinunciabili che sono il cuore del cristianesimo. In Italia questo tema, ad esempio, ultimamente ha portato a un rinnovato impegno verso la costruzione di un virtuoso scambio tra realtà e persone operanti nella società a livello politico o del terzo settore. Una spinta energica, come sappiamo, è arrivata in questo senso dalla Settimana sociale di Trieste.
E il Papa “laggiù” ai confini del “nostro” mondo ha dimostrato che i cattolici hanno qualcosa da dire a tutti, anche dove sono minoranza, perché sanno mettersi in ascolto e quindi sanno costruire ponti, sanare le ferite provocate dai conflitti, dare speranza e sostegno concreto ai deboli, ai poveri, a chi vive le peggiori piaghe sociali sulla propria pelle. I cattolici sanno dare futuro, non vacue promesse, alle nuove generazioni, sanno fare rete anche con chi è diverso, sanno mettersi di fronte agli altri scavando nelle fondamenta della società dei “tunnel” fatti di amicizia, di quotidiana condivisione. Sanno accogliere e sanno dare ristoro a tutti, perché non temono che la loro identità si annacqui, si sfilacci o si perda nel confronto. A patto, però, che ne sappiano coltivare le radici. Ed ecco, quindi, un ultimo, profetico messaggio che dobbiamo portarci a casa da questo enorme viaggio apostolico: una delle sfide che oggi il nostro caro vecchio “centro del mondo” deve affrontare è proprio quello dell’accoglienza dei lontani, dei “diversi”, degli ultimi che bussano alle nostre porte e che spesso rischiano la vita per venire a bussare. Questo rumore insistente di mani disperate che cercano una sponda dove far approdare le proprie speranze non può essere ignorato o allontanato. Rappresenta, invece, una forte provocazione alla nostra identità, alla nostra capacità di “difesa” di quei valori antichi e radicati di cui andiamo fieri. Davvero vogliamo difendere ciò che è nostro? Allora, ci sta dicendo il Papa, facciamolo fino in fondo: dobbiamo avere il coraggio di dirci cristiani, di alimentare il Vangelo, di farci testimoni, di ascoltare cosa ha da dire a noi prima di tutto il Dio di quel Gesù Cristo morto e risorto in un angolo di Mediterraneo duemila anni fa.
Altrimenti cosa avremo da difendere? Solo delle chiese vuote dove coloro che si proclamano i grandi araldi dei valori cristiani non mettono più piede da anni? Ripopolare le chiese non vuol dire solo tornare alla pratica cristiana, ma anche farci delle domande su ciò in cui crediamo, sui principi e i valori che hanno costruito il mondo che ci circonda. A Giacarta, Paese a maggioranza musulmana, si è scelto di costruire la moschea più grande del sudest asiatico accanto alla Cattedrale come segno di incontro e di dialogo: portiamo questo esempio a chi da noi si fa forte degli slogan del tipo “però a casa loro sono intolleranti” e chiediamoci come reagiremmo davanti a una situazione simile, con una moschea accanto a una cattedrale nelle nostre città. Popoleremmo i social dal nostro divano scagliandoci contro un presunto inaccettabile rischio per i nostri valori cristiani o torneremmo a popolare la cattedrale per alimentare la nostra fede? Questa ultima opzione, in realtà, porta con sé alcuni “rischi” reali: tornare a vivere l’Eucaristia, il cuore pulsante della vita di fede per i cattolici, ci farebbe scoprire che siamo davvero tutti sorelle e fratelli (non a caso il tema del Congresso eucaristico di Quito in questi giorni ha messo al centro proprio il tema della fraternità) e che quindi il miglior modo per essere cristiani è aprirsi all’accoglienza e al dialogo. E poi ci sarebbe un altro “pericolo”, magari andando a Messa in quella cattedrale in posizione “pericolosa” si rischierebbe di incontrare e conoscere meglio quei “vicini”, i quali rischierebbero a loro volta di rimanere affascinati dalla nostra capacità, tutta cristiana, di dialogo e accoglienza.