Caro direttore,
non discuto i fatti. I francescani (come pure i domenicani) sono stati attivi in guerre, in crociate e in processi inquisitori non sempre garantisti. Frati francescani pieni di medaglie parteciparono anche alle sfilate dei cappellani militari a sostegno di Mussolini. Parliamo di condizionamenti del tempo, di guasti del regime di cristianità, di ubriacature nazionaliste. Parliamo pure di esagerazioni del “francescanesimo romantico”. Ma sostenere che quelle imprese in armi erano in sostanza espressioni di fedeltà al carisma iniziale, come a mio parere traspare dalla recensione di Antonio Giuliano a un nuovo libro di Paolo Evangelisti (“Avvenire”, 24 aprile 2021) è veramente troppo. Mi sembra un ammiccamento offensivo per gli uomini e le donne che oggi cadono inermi sulla prima linea dell’evangelizzazione.
don Sandro Lagomarsini
Non sono uno storico, caro don Sandro, ma semplicemente un assisano. Sono dunque, e mi sento, pure ora che vivo tra Milano e Roma, un “concittadino” di Francesco e di Chiara, e idealmente di tutti i francescani, le francescane e le clarisse del mondo. Ho imparato molto presto, e non smetto di farlo, che la secolare vita del francescanesimo è grande, luminosa, ma anche segnata dalle contraddizioni. E so che Paolo Evangelisti è uno studioso serio e appassionatamente dedito all’impegno di demitizzare Francesco e i suoi continuatori. Lo rispetto, ma non penso che sia Bonaventura da Bagnoregio o Tommaso da Celano e neppure l’oracolo di Delfi, per esempio non quando dice la sua sull’incontro del Santo di Assisi con il Sultano musulmano e lo minimizza. Ho imparato bene che gli alberi si riconoscono dai frutti, e la secolare, ininterrotta presenza e testimonianza francescana in terre a prevalenza islamica è un frutto che “parla” con mite e forte eloquenza. Soprattutto Evangelisti non mi convince quando sceglie di cercare tra i francescani soltanto “ideologi” delle crociate e teorici della militanza armata e non i custodi della convivenza tra credenti nell’unico Dio e della ricerca fraterna delle parole-comuni-tra-dinoi. Fatica di pace, non irenismo. Accettazione per amore del rischio del martirio, non resa alla morte. Dedizione all’ascolto del-l’altro, che non esclude affatto l’ambizione evangelica di essere così veri e “attraenti” da chiamare l’altro a Cristo. Il nostro Papa, che ha scelto il nome di Francesco, la chiama «cultura dell’incontro».
Non credo proprio, poi, che l’intenzione del mio collega Antonio Giuliano, generoso recensore dell’ultimo volume di Evangelisti “Dopo Francesco”, fosse quella di far «trasparire » l’idea di un iniziale carisma francescano guerrafondaio. E sono certo che non abbia ammiccato in modo offensivo nei confronti di alcuno, a maggior ragione dei missionari e delle missionarie, apostoli inermi e mai inerti del Vangelo di Gesù. Ognuno di noi, ovviamente, ha però il suo stile, la sua scrittura e i suoi propri occhiali. Dico, perciò, la mia in modo netto, anche (ma non solo) da concittadino del “mio” Santo: la perfetta letizia di Francesco nulla ha a che fare con l’«antico gioco crudele» della guerra di cui Franco Cardini ha magistralmente scritto, se non per la radicale e santa conversione di un uomo cristiano che smise dolorosamente le ricchezze, rinunciò a ogni arma e accolse nella sua carne le ferite di Gesù sulla croce della redenzione di tutti e di tutto il Creato. Questa è la sua via, la stessa del suo e nostro Signore: rinuncia alla guerra, cammino di pace. Grazie, caro don Sandro, per la tua sempre vigile schiettezza e per l’amicizia.