Caro direttore,
parto da un fatto giornalistico del 2 ottobre scorso. Quel giorno uno dei più importanti Giornale radio nazionali ha aperto con la notizia che «Le giovani coppie italiane non fanno più figli a causa della crisi economica». I dati Istat, diramati quel giorno, in effetti erano impietosi; fotografia di una realtà di cui tutti si stanno rendendo conto, ma che era evidente a un’osservazione non superficiale già da molti anni (e nessuno lo sa meglio dei lettori di “Avvenire”). Ora tutti se ne accorgono e stuoli di “dotti, medici e sapienti” propongono le loro soluzioni vincenti per superare il problema ed evitare il crollo sociale. La denatalità viene vista non come la negazione nei fatti della dignità della persona umana, quanto piuttosto e soltanto come problematica dal punto di vista sociale e previdenziale (“chi pagherà in futuro le nostre pensioni?”). Due osservazioni in merito. La prima riguarda l’attività di volontariato a favore della vita e di una procreazione veramente responsabile che migliaia di coppie stanno promuovendo in Italia da oltre trenta anni; un impegno silenzioso e costante, gratuito, vissuto spesso nell’indifferenza della quasi totalità dei mezzi di stampa, nella derisione di parte della classe medica e in un silenzio spesso assordante anche nel mondo ecclesiale (per non parlare ovviamente di quello politico, impegnato su questioni più “importanti”). Questi volontari da sempre cercano di far riflettere sull’importanza della vita umana, sulla bellezza della fertilità e sulle modalità per preservarla, sulla opportunità di fare figli in un’età appropriata, sulle distorsioni della procreazione artificiale, soprattutto sulle derive di una cultura che vede nel figlio un oggetto dei desideri più che una persona da accogliere e amare. La seconda considerazione riguarda il titolo del giornale radio da cui sono partito. Penso rappresenti una valutazione troppo semplicistica della realtà e lo dico anche se penso di conoscere le problematiche concrete delle giovani coppie oggi in Italia. Se fosse vero che non si fanno più figli «a causa della crisi economica», non si spiegherebbe come mai il numero maggiore di figli in Italia lo troviamo oggi nelle famiglie albanesi, marocchine, cinesi, rumene o di altre etnie, famiglie che spesso vivono in condizioni socio-economiche anche molto svantaggiate. Forse sono proprio queste famiglie che ci possono insegnare ad avere più fiducia nell’accoglienza della vita nascente, confermando ciò che molti economisti e sociologi sostengono e che la storia ha più volte confermato: il dato inconfutabile che le crisi economiche hanno sempre seguìto e non preceduto le crisi demografiche. Chi ha figli potrà forse avere in alcuni momenti delle difficoltà economiche (superabili con l’aiuto delle famiglie di origine, e di una società e una politica più attenta ai veri bisogni della gente), ma sicuramente, come successe nell’Italia dell’ultimo boom economico, avrà motivazioni, intuito e progettualità per trasformare in energie positive l’assunzione di responsabilità che essere genitori da sempre comporta.
Mario Campanella, Revello (Cn)
Mi colpisce e mi appassiona la costanza e l’acutezza con la quale diversi nostri lettori continuano, proprio come lei, caro dottor Campanella, a ragionare sulle cause profonde della denatalità. Mi piace il loro non accontentarsi di una lettura puramente economicistica delle motivazioni di uno sboom demografico che, tuttavia, è indubitabilmente frutto di politiche fiscali e sociali miopi e sta alla base della crescente fatica (continuo a sperare di non dover mai scrivere, senza scampo, del “declino”) dell’Italia. Penso che sia la dimostrazione del fatto che nel nostro Paese ci sono ancora e sempre intelligenze ed energie buone per comprendere i motivi della caduta lungo un rischioso piano inclinato, ma soprattutto per avviare la risalita. Penso anche che sia la conferma del fatto che tanti già si sono resi conto di come, senza un robusto recupero culturale e morale, senza una vera e piena cultura della vita, della dignità di ogni vita umana, non sia possibile ricominciare davvero, perché la spensierata e disperata mentalità prodotta da quella che papa Francesco chiama la «cultura dello scarto» produce inesorabilmente egoismo, esclusione, sospetto reciproco, ostilità, sfruttamento, euforia di pochi e depressione di molti. L’impegno educativo della Chiesa, che qualcuno si ostina a non riconoscere (la lente deformante delle polemiche e le nebbie scintillanti del “pensiero unico” libertario-libertino offuscano anche sguardi potenzialmente benintenzionati…), è importante proprio per questo. Soprattutto perché gli «assordanti silenzi» dei mass media sulla disarmata, umanissima e luminosa battaglia dei volontari dei Centri di aiuto alla vita impediscono di ampliare – ed è una colpa davvero grave – quel contagio di bene che invece serve e servirà sempre di più. Lei, caro amico, da medico qual è, richiama giustamente a verità così naturali ed elementari da sembrare inattuali e da essere state dimenticate (e, dunque, non trasmesse) da troppi di noi italiani: i bambini sono sempre una ricchezza (un po’ in tutta la Penisola ma certamente dalle mie parti si diceva: «Ogni bambino viene col suo panierino»); nessun figlio è un “dovere” di troppo e nessun figlio è un “diritto” d’altri, neanche dei suoi genitori; il tempo giusto della maternità e della paternità dura tutta la vita, ma comincia quando tanti, oggi, ancora si dicono “ragazzi” (tra i venticinque e i trentacinque anni)… Potrei continuare. Ma mi pare che abbia già detto molto bene lei. Grazie.