martedì 21 maggio 2024
L’impopolarità dei tassisti non può essere il pretesto per farli fuori. Perché è questo il “big plan” di Uber e delle altre piattaforme che vogliono fare il servizio dei taxi a costi sempre più bassi
I tassisti non sono macchine, ma quanto devono guadagnare?

Ansa

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Quanto vogliamo che guadagni un tassista? Quanto riteniamo giusto che gli rimanga in tasca una volta pagati il carburante, la manutenzione, le rate di ammortamento dell’auto e della licenza? Mille euro? Duemila? Tremila? Inutile girarci tanto intorno: una risposta a questa domanda ce l’abbiamo già in testa. Magari è una risposta implicita, perché non abbiamo quantificato con precisione la cifra che ci sembrerebbe adeguata, ma è comunque in base a quel parametro che intuitivamente siamo più o meno disposti a tollerare l’ennesimo sciopero nazionale della categoria, che ora minaccia una protesta di due giorni a ridosso delle elezioni.

A protestare sono i tassisti ma sui media parliamo dello sciopero dei taxi: eppure non sono le automobili ad andare in piazza da sole (ancora non ne sono capaci). A protestare sono quelli che le guidano. Questa metonimia, questo istintivo scambio semantico tra l’oggetto e l’essere umano, un po’ già ci tradisce: perché a noi quello che serve, quello che ci interessa davvero, sono i taxi, non tanto i tassisti. Vogliamo auto che ci portino da un posto all’altro e possibilmente vorremmo farlo spendendo poco. Ci basta che chi è al volante sappia guidare e tenga la macchina pulita.

Considerati più mezzi di trasporto che persone, i tassisti non sono molto popolari. Non fanno nemmeno molto per migliorare la loro immagine. Non solo in questi giorni di sciopero, che sono di per sé antipatici per chi li subisce e facilmente degenerano in scene anche violente. Anche nei giorni normali ci sono troppe cose che non vanno, con i tassisti italiani. Intanto in molte città – Roma su tutte – sono proprio pochi: introvabili quando li chiamiamo al telefono, irraggiungibili quando arriviamo in stazione e li vediamo quasi all’orizzonte, alle fine di lunghe e scoraggianti code di aspiranti clienti di tassisti come noi. Poi ci sono quelli che fanno resistenza ai pagamenti con bancomat e carte di credito, ed è una resistenza allo stesso tempo preistorica – oggi che con i pagamenti elettronici si salda lo scontro da 1,20 euro per il caffè al bar – e anche molto sospetta, perché è lecito pensare che più della commissione sui pagamenti a questi tassisti anti-pos dia fastidio la tracciabilità dei loro incassi. Infine ci sono i tassisti che rifiutano le corse quando non sono abbastanza redditizie e fanno scendere clienti colpevoli di doversi spostare troppo poco: questi sì che sono “taxi” e non tassisti, macchine che non caricano persone, ma portafogli.

L’impopolarità dei tassisti però non può essere il pretesto per farli fuori. Perché è questo il “big plan” di quelli che, correttamente, i tassisti hanno individuato come i loro nemici: Uber e le altre piattaforme che vogliono fare il servizio dei taxi ma senza i tassisti. In un’epoca in cui la tecnica sembra godere di un’aura divina, ciò che è tecnicamente fattibile facilmente di per sé giusto ed è facile avere la tentazione di inseguire l’innovazione in quanto tale. Uber ha certamente creato una piattaforma straordinariamente efficiente nel fare incontrare la domanda e l’offerta di spostamenti in auto con un autista (che è, essenzialmente, il lavoro dei tassisti) e in molti Paesi sa offrire il servizio a prezzi inferiori. Sono tariffe più basse perché chi guida non ha dovuto pagare la licenza per fare il tassista. Nei casi migliori il driver di Uber fa il lavoro del tassista ma spesso solo part time: ha anche un’altra occupazione e quando ha tempo arrotonda prendendo la macchina e trasportando qualche passeggero. In altri casi è semplicemente un gig worker, un lavoratore della piattaforma, uno che è autonomo solo in teoria, perché dipende da un unico committente e sostanzialmente lavora a cottimo: se c’è lavoro incassa, altrimenti niente. È come il rider del food delivery, ma un po’ più ricco. Non molto più ricco, però: il fatto è che se vogliamo il mercato senza regole troveremo sempre qualcuno disposto a incassare “un po’ meno” per darci un passaggio.

Fin dove siamo disposti a scendere? È qui che torniamo alla domanda di partenza: quanto vogliamo che guadagni chi fa questo lavoro? In Italia apparentemente i tassisti non guadagnano male, se ci sono quelli che possono guidare Mercedes, Tesla e altre auto costose. Altrove, negli Stati Uniti per esempio, i tassisti sono spesso lavoratori poveri, che vivono situazioni di reale disagio. In Italia il reddito medio dei contribuenti nel 2022 era di 23.650 euro lordi. In base alla dichiarazioni del 2019, pre-Covid, il reddito medio dei tassisti era sotto i 20mila euro anche in grandi città come Roma o Milano. A occhio pare poco credibile. È in ogni caso questo il cuore dello scontro: i tassisti non vogliono aperture perché non hanno paura di impoverirsi. Hanno ragione o torto? Quanto impoverimento dei tassisti desideriamo?

L’importante è non cercare la risposta nelle scorciatoie, nelle app che lasciano i tassisti a bollire nel loro brodo mentre li si mette in competizione con i lavoratori a cottimo arruolati quando serve da grandi piattaforme che ci fanno spedire a San Francisco i soldi per una corsa da Stazione Centrale a Piazza Duomo. Dara Khosrowshahi, il ceo di Uber, ha ricevuto compensi per 24 milioni di dollari nel 2023 e a marzo ha ottenuto un premio, in azioni, da 136 milioni. Difficile dire quanto sia giusto che guadagni un manager del genere, ma forse è comunque un po’ troppo.

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